Bologna
All’Arterìa si fa musica, non razzismo
La brutta bega che ha coinvolto l’Arterìa di Bologna in questi primi giorni di marzo andrebbe diffusa e raccontata il più possibile, anche solo per rendersi conto di quanto sia difficile oggi gestire un locale in Italia. Non parliamo più solo di una questione di permessi che si incrociano con la crisi economica globale, ma di come si stia impoverendo il dibattito pubblico, di come sia piatta la politica, e di quanto poco sia incoraggiante investire e gestire, travolti da un insolito modo di fare inchieste sui giornali.
Nei giorni scorsi sulle pagine della Repubblica Bologna viene pubblicato un poco appassionante reportage dal titolo ”Bologna, apartheid in discoteca: porte sbarrate ai neri”. A dare un’occhiata al titolo vai con la mente alle battaglie di libertà di Nelson Mandela, e se ci caschi e credi al pregiudizio inizi anche a chiederti come sia possibile che in Italia nel 2015 esista un locale che non fa entrare i neri. Comunque sia la giornalista racconta il suo esperimento, che ricorda molto da vicino alcuni reportage di Vice in stile ‘‘Ho vissuto una settimana come se fosse il 1996’‘, anche se quelli son dichiaratamente cazzoni e non pretendono di esser presi sul serio. La giornalista ha provato a entrare nel locale accompagnata da un ragazzo del Mali che vive in un centro di accoglienza a Bologna, ma a quanto pare i buttafuori hanno comunicato al ragazzo di aspettare vietandogli l’ingresso nel locale. Tanto basta per montare un caso nazionale che ha mobilitato Salvini e il Partito Democratico, e che ha impresso sull’Arterìa il marchio di locale razzista (ciò nonostante il proprietario del locale, Mimmo Migliaccio, sia sposato con una giamaicana e abbia due figli mulatti, particolare che non dovrebbe contare neanche, se non vivessimo in un paese che ha bisogno di certe dimostrazioni).
Ma perché i buttafuori hanno respinto il ragazzo nero, e fatto entrare tutti gli altri? Nei giorni scorsi l’Arterìa è stato teatro di una rissa, a un ragazzo di colore è stato trovato un coltello. Tanto basta a un buttafuori per arrivare al pregiudizio contro tutti i ragazzi di colore dei centri di accoglienza in città? Forse alcuni musicisti che hanno suonato nel locale di Bologna e mostrato solidarietà hanno ragione: talvolta i buttafuori potranno anche tendere a invasarsi, ma la colpa non è dei proprietari, e i locali non sono certo centri di raccolte di vecchie ideologie razziste, tutt’altro. Parlare di apartheid resta scorretto, ne va del vocabolario umano. Mettere in difficoltà un’intera attività sulla base di un esperimento di cronaca è scorretto. Sarebbe come dire che al Berghain di Berlino, locale noto per la sua ferrea selezione all’ingresso, si faccia del terrorismo psicologico.
Intanto nel dibattito è entrata anche la politica con tutto il suo populismo di maniera, quella che non aspettava altro. Matteo Salvini ha scritto su Facebook uno stato che ha mobilitato i soliti followers del leader leghista, quella parte d’Italia che si esalta in caps lock. ”A Bologna i “PRESUNTI PROFUGHI” protestano perché non li fanno entrare in DISCOTECA. Non è uno scherzo, è tutto vero. Lo denuncia indignata Repubblica.it che titola “Apartheid in discoteca”, perché all’Arterìa chiedono i documenti. Poverini questi immigrati, gli paghiamo colazione, pranzo e cena, ma non lo sballo in discoteca… A CASA!!!!!”
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