Religione
Al Giardino dei Giusti con Sumaya Abdel Qader
Uno dei problemi della Giornata della Memoria, il 27 gennaio, è senza dubbio quello della retorica ripetitiva e all’apparenza inaridita che se da un lato coinvolge (come dimostrano tutti i dati ufficiali) un numero sempre maggiore di donne e uomini, in particolare giovani, dall’altro non sembra tutelare alcunché eccetto che il ricordo. Però il ricordo, da solo, serve a poco, o a nulla. Manca dunque una visione del presente e soprattutto del futuro. Scrive Elena Loewenthal in un pamphlet del 2014: «La memoria non porta con sé alcuna speranza. La cognizione del male non è un vaccino. “Ricorda perché non accada mai più” è una frase vuota. Se anche non dovesse accadere mai più, non sarà per merito della memoria ma del caso».
Immagino sia riflettendo sul Bene e sul Male – come fa ormai da parecchi anni – nonché su un’azione “militante” propositiva, attuale e stringente, che Gabriele Nissim ha lanciato, circa un mese fa, a nome del “suo” Gariwo, un appello alle associazioni islamiche: visitare insieme, il 29 gennaio, il Giardino dei Giusti sul Monte Stella «per affermare che il terrore rappresenta la distruzione non solo della convivenza tra gli uomini, ma dello stesso spirito profondo che porta a credere in un essere trascendente che in fondo rappresenta la parte migliore di noi. Quando in nome di Dio si uccide e si trova la giustificazione per compiere atti barbari, come ha scritto Etty Hillesum prima di morire ad Auschwitz, in realtà si uccide lo stesso Dio. Ecco perché gli uomini, nelle circostanze peggiori, sono chiamati a difendere Dio da coloro che lo vorrebbero trasformare nel peggiore dei criminali».
Dunque, nel giorno in cui si ricorda il genocidio più terribilmente scientifico della storia, quello ebraico, a onorarne la memoria ci potrebbero essere ufficialmente anche rappresentanti dell’Islam italiano. La visita sarebbe un segnale importante, il pellegrinaggio non formale di quell’Islam milanese che insieme ai cittadini di ogni credo a Monte Stella ricorda uomini che hanno agito in mezzo mondo, italiani, russi, americani, arabi, ebrei, armeni capaci di andare in soccorso dell’altro superando ogni barriera etnica, nazionale, religiosa, perché la patria più importante dell’uomo è la comune umanità. Sarebbe davvero un gran bel segnale onorare insieme i grandi esempi di Giusti. Chi ha rischiato la vita per nascondere gli ebrei braccati da fascisti e nazisti, ma anche il musulmano Khaled Al-Asaad, l’archeologo siriano di Palmira che ha dato la vita per la salvezza dei siti archeologici, o Alganesh Fessaha, l’eritrea che a Lampedusa ha salvato decine di migranti, e Mehmet Gelal Bey, il turco ottomano sindaco di Aleppo che ha cercato di salvare gli armeni durante il genocidio, e Khaled Abdul Wahab, il tunisino che durante l’occupazione tedesca ha nascosto decine di ebrei a casa sua… Sarebbe bello essere lì tutti insieme, cattolici, laici, ebrei, autorità.
«Effettivamente sarebbe un gran bel segnale», pensa Sumaya Abdel Qader, consigliera comunale del PD, che ha risposto all’appello di Nissim. Lei che è al centro di mille polemiche e che si muove – come tutti noi che cerchiamo ponti e non muri – in un clima brutto di paure e di esasperazione. A volte di ambiguità. «Appena Nissim, mesi fa, mi ha fatto conoscere il progetto del Giardino dei Giusti, me ne sono innamorata perché condivido lo spirito e la grande lungimiranza». Così ne ha parlato con i ragazzi dell’associazione dei Giovani Musulmani d’Italia-Milano e hanno preso in considerazione l’idea di organizzare la visita. «La proposta è stata subito accolta. Abbiamo voluto far coincidere la visita al Giardino con la Giornata della Memoria per dare un messaggio più forte: la nostra vicinanza alla comunità ebraica in un momento di ricordo doloroso e la volontà di apertura, che è voglia di ascolto, confronto e sostegno a ogni iniziativa volta a salvaguardare il Creato e l’Umanità. Anche perché vogliamo essere partecipi nella lotta contro l’antisemitismo e contro ogni discriminazione. Le comunità islamiche finalmente hanno cominciato a essere stabili in Italia. Sentirsi stabili vuol dire uscire dalla mentalità emergenziale del dover rispondere innanzitutto ai propri bisogni primari. Vuol dire cominciare a guardarsi intorno e a voler interagire. Vuol dire diventare parte integrante del Paese. Questo in particolare grazie alle nuove generazioni».
Un percorso, sostiene Sumaya Abdel Qader, «ancora più importante in tempi come questi, quando l’Islam è visto con sospetto e stigmatizzato. È proprio adesso che diventa più che mai necessario lanciare messaggi chiari». Questi messaggi, a volte anche i suoi, non sembrano particolarmente chiari, se non ambigui, e da qui si scatenano polemiche che in realtà sono dannose per tutti. «Sì, negli ultimi mesi mi sono trovata nel vortice di polemiche. Non mi reputo ambigua, magari non sempre perfetta nell’esporre un pensiero, può capitare e sono sempre attenta a lavorare sul linguaggio per trasmettere al meglio le mie posizioni. Mi piacerebbe però che chi polemizza con me mi incontrasse per dibattere e discutere i temi sollevati in contesti adeguati (io non dibatto su Facebook). Sono disponibile, come sempre, a rispondere a qualsiasi domanda. Spesso l’incomprensione nasce dal non contatto umano, ma solo virtuale e indiretto che allontana le persone e le rende indecifrabili uno verso l’altro. Poi, purtroppo, quando si fa politica c’è anche chi strumentalizza senza interesse ad avere un serio e civile dibattito. Accade spesso quando si parla di Islam. Dovremmo ricordarci che non abbiamo a che fare con l’Islam come entità astratta, bensì con musulmani, ovvero persone che come ogni altro essere umano hanno pregi e difetti, paure e speranze. E ciò che adesso spaventa di più i musulmani è il male che viene dallo jihadismo e dall’estremismo. È proprio ciò che vogliamo combattere, anche con iniziative come questa della visita al Giardino».
Così andranno a Monte Stella ragazze e ragazzi dei Giovani Musulmani d’Italia e delle associazioni di Milano, Sesto San Giovanni, Monza, e i giovani della Federazione islamica del Piemonte nonché l’associazione italiana degli imam e delle guide religiose, e molte moschee della città. Impareranno la storia di chi salvò esseri umani perseguitati. Forse ricorderanno anche Lassana Bathily, il giovane musulmano originario del Mali che il 9 gennaio 2015 lavorava al supermercato Hyper Cacher di Parigi e quando i terroristi diedero l’assalto all’edificio e presero in ostaggio alcuni clienti non esitò un attimo a difendere i clienti ebrei e ne fece nascondere una dozzina in una cella frigorifera in attesa che gli assalitori se ne andassero, cercò di confortarli e spense la ventola per non attirare l’attenzione. «Ci sono tantissimi Giusti nel mondo. Molto spesso sono giusti anonimi e a cui non si dà voce. In tanti villaggi e città c’è chi combatte battaglie grandi e piccole per la tutela dei diritti umani, in nome della vita. Numerose sono le donne protagoniste che lottano in particolare contro le discriminazioni di genere. Nel Giardino si ricorda Sonia Alizadeh, rapper afghana che ha denunciato nel 2014 la barbara pratica delle spose bambine; c’è Halima Bashir, vittima di drammatiche violenze per aver difeso nel 2004 le donne stuprate dalle milizie janjaweed in Darfur… Di fatto, nel mondo, non abbiamo solo un giardino, ma una foresta di anime buone che si spendono per gli altri».
Già, però a me risulta che, per esempio, gli israeliani soccorrano e aiutino chiunque è in pericolo di vita (perfino mandando squadre a prelevare feriti nelle zone siriane di guerra) e non mi risulta il medesimo atteggiamento da parte palestinese di fronte ad attentati o accoltellamenti. «È vero. Ci sono israeliani che soccorrono palestinesi; è più difficile, però non impossibile, vedere il contrario. Veniamo da oltre mezzo secolo di conflitti che hanno sedimentato odi, rancori, reciproche recriminazioni che si autoalimentano in una spirale in cui ad ogni azione corrisponde una sequela infinita di reazioni. Eppure ci sono esperienze positive di convivenza costruttiva tra israeliani e palestinesi, come insegnano gli abitanti di Nevè Shalom/Wahat Essalam. La profonda ferita prodotta dalla “questione israelo-palestinese” deve essere curata e superata. Sarà possibile solo quando entrambe le parti si riconosceranno appieno, quando si deporranno le armi e quando il sentimento di vendetta evaporerà lasciando spazio alla voglia di costruire. Per questo è urgente riconoscere uno Stato per ciascun popolo. Secondo me, noi che viviamo qui in Italia e in Europa, in particolare chi ha legami più stretti con Israele e Palestina, dovremmo renderci promotori di nuove visioni, nuovi discorsi, incontri e riflessioni che possano spingere nella strada verso la pace. Qui non possiamo e non dobbiamo riprodurre le lotte e gli scontri, dobbiamo essere modello della possibile pacifica convivenza. Noi dobbiamo spogliarci del dolore della storia passata e vestirci del sogno futuro di pace».
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