Benessere
Adozione, tra crisi e speranze: in mezzo ci sono i bambini
«Adottare un bambino che arriva da lontano è un’esperienza dura, ma anche bellissima, che ti arricchisce come solo le imprese più faticose riescono a fare». Sono parole quasi commosse quelle di Graziella Teti, responsabile per l’adozione internazionale del Ciai (Centro italiano aiuti per l’infanzia), uno degli Enti attivi in questo campo da più tempo. Le brillano gli occhi e noi le crediamo, tanto più che lei stessa è madre adottiva di una bambina vietnamita che ora ha 25 anni.
Eppure si avverte un clima teso e amaro quando ci si avvicina al mondo dell’adozione internazionale. Innanzitutto perché il numero delle adozioni è in costante, drammatico calo dal 2011 a oggi. E poi perché alcuni dichiarano forte e chiaro il malcontento nei confronti della Commissione per le adozioni internazionali (Cai), che fa capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e che ha il compito di tenere le relazioni con le autorità dei Paesi di provenienza dei bambini e di autorizzare gli Enti che realizzano concretamente l’adozione.
A soffiare sul fuoco del malcontento c’è il senatore del Nuovo Centro Destra Carlo Giovanardi, a sua volta ex presidente della Cai, e con lui altri deputati e senatori di area popolare che a colpi di interrogazioni parlamentari mettono sotto torchio l’operato della Commissione, presieduta oggi dall’ex magistrato Silvia Della Monica, ex senatrice del Pd, che funge anche da vice presidente.
L’ultimo attacco in ordine di tempo da parte di Giovanardi riguarda in particolare un episodio che si sarebbe verificato a fine dicembre 2014 e arrivato sui media nazionali pochi giorni fa: 22 bambini della Repubblica del Congo già destinati all’adozione in Italia sarebbero stati spostati nottetempo in un altro orfanotrofio durante un’azione dai contorni poco chiari. «Mi domando e domando al Governo come sia possibile che questa Commissione non si sia mai riunita per approvare o ratificare decisioni, come l’ultima per il Congo, che hanno creato un incidente con quel Paese nel momento in cui alcuni bambini, già abbinati con un ente italiano, sono stati portati via da un altro ente – non si capisce bene se incaricato o meno dalla Commissione internazionale – creando sconcerto e una reazione delle autorità congolesi».
Tra tutti gli Enti deputati alle adozioni internazionali, il più agguerrito contro l’operato della Cai è l’Aibi, associazione di dichiarata matrice cattolica operante nel settore da quasi trent’anni. È l’Aibi che ha lanciato l’allarme più drammatico: se si continua così, l’adozione internazionale sparirà entro il 2020. Irene Bertuzzi, responsabile per questo Ente delle adozioni internazionali, attribuisce gran parte di questa crisi proprio all’operato della Cai: «Con questa nuova Commissione stiamo vivendo un situazione drammatica. Per la prima volta nella storia, la vicepresidente è sia il controllore sia il controllato, sopra di lei non c’è nessuno. Da mesi, infatti, questa Commissione ha una Presidente e una Vice Presidente, che sono la stessa persona, la senatrice Della Monica. Per legge, invece, la Commissione dovrebbe avere un Presidente membro del Governo e un vice Presidente un magistrato. Così ora non è. Di fatto, quindi, la Della Monica fa quello che vuole». Ovvero niente, secondo la Bertuzzi. Le accuse sono chiare: il consiglio non è mai stato convocato, si muove senza alcun dialogo con gli Enti e inoltre non rilascia importanti documenti richiesti dagli Stati di provenienza dei bambini – è il caso ad esempio della Bielorussia e del Kenia – impedendo di fatto adozioni già previste da tempo.
A smorzare toni tanto accesi ci pensa Graziella Teti, del Ciai. «La nostra impressione è che la dottoressa Della Monica stia affrontando questo compito in maniera molto consapevole. È vero che eravamo abituati a un maggiore dialogo, ma questa Commissione è più attenta ai rispettivi ruoli. E forse era necessario un momento in cui ognuno si assumesse le proprie responsabilità. Noi del Ciai chiediamo anzi che il controllo sugli Enti venga rinforzato: siamo ben 62, troppi!». La stessa Silvia Della Monica ha dichiarato in un’intervista al mensile Vita che l’obiettivo del suo lavoro alla Commissione è quello di dare più attenzione alla qualità delle adozioni internazionali e meno alla quantità.
Resta il fatto che i numeri dell’adozione sono inquietanti. Dal picco del 2010, con 4.130 bambini adottati nel nostro Paese, le adozioni internazionali sono crollate a 2.825 nel 2013, con una flessione complessiva di quasi il 32 per cento. La decrescita è stata costante negli ultimi quattro anni e così evidente che la responsabilità non può essere solo dell’operato della Cai, tanto più che la crisi dell’adozione riguarda tutta l’Europa.
«Molti Paesi da cui si adottava hanno iniziato ad attivare politiche di protezione delle famiglie che hanno portato a una riduzione del numero di bambini in stato di abbandono», conferma Graziella Teti. «Parlo soprattutto dei Paesi che negli anni hanno ratificato la Convenzione dell’Aja, che pone come priorità il riuscire a fare sì che un bambino resti nella sua famiglia d’origine. I Paesi che l’hanno firmata si sono attrezzati, grazie all’aiuto internazionale e alla cooperazione, per contenere il numero di bambini che andavano all’estero». Perché se dal punto di vista occidentale, l’adozione è anche un atto di generosità nei confronti di bambini sfortunati, l’opinione pubblica nei Paesi di provenienza la pensa in modo molto diverso e con qualche ragione. «Abbiamo riscontrato una crescita del pregiudizio nei confronti dell’adozione che spesso è vista, in alcune realtà, come una sorta di sopruso perpetrato dai Paesi ricchi nei confronti dei Paesi poveri. La Colombia, ad esempio, tempo fa ha fermato le adozioni perché il Governo voleva vedere chiaro nelle procedure e nel modo in cui questi bambini diventavano adottabili. La stessa cosa sta succedendo in Africa. Purtroppo, lo abbiamo visto noi stessi, ci sono persone che vanno nei villaggi poveri a prendere i piccoli in cambio di somme di denaro. C’è sempre il rischio che sia fatta a monte una forzatura sull’abbandono di un bambino ed è qualcosa che noi non possiamo controllare né verificare».
Accanto a questi fattori legati ai Paesi di provenienza, a determinare un calo delle adozioni c’è senz’altro anche la nostra crisi economica. Adottare costa molto, dai 15 ai 30 mila euro, secondo i Paesi da cui arrivano i bambini, e anche se si può detrarre il 50 per cento delle spese documentate, l’esborso resta alto. Tanto più che molti dei bambini che oggi arrivano in Italia hanno qualche problematica fisica che richiederà interventi medici o sostegni psicologici una volta arrivati da noi. Si tratta di quei bambini che vengono definiti con “special needs”, che hanno problemi di solito reversibili se aiutati, magari ipovedenti o con lievi malformazioni agli arti. «Più del 50 per cento dei piccoli segnalati per l’adozione internazionale hanno un problema», ci dice Graziella Teti. «Il nostro compito è capire quali spazi ci sono in ogni famiglia, quali problematiche può affrontare. È un lavoro molto complesso e per le coppie è molto faticoso. Ma è necessario perché l’abbinamento sia il più vicino possibile alle capacità di chi vuole adottare».
Il percorso che porta all’adozione è in effetti molto lungo e complicato. Da quando si fa la richiesta al Tribunale dei Minori passano di solito tra gli 8 e i 12 mesi prima di avere il decreto di idoneità, sempre che lo si ottenga. Poi ci vuole ancora in media un altro anno, se non due o più, prima di avere l’abbinamento. È un periodo in cui si fanno colloqui con psicologi e assistenti sociali della Asl di competenza prima, e con gli psicologi dell’Ente per l’adozione poi.
«Le prime volte che uscivamo da questi incontri mio marito e io eravamo sconvolti, perché sei sottoposto a domande anche estreme», racconta Sabrina, due figli biologici e il sogno di averne un altro adottivo. «Ti mettono molto in discussione sulle motivazioni che ti spingono all’adozione ma non solo, vanno a toccare nodi profondi che magari risalgono alla tua infanzia o che riguardano i rapporti familiari. Ma in due ogni volta superavamo lo choc e come coppia è stata un’esperienza in un certo modo fantastica». Lo conferma Stefania, che 6 anni fa ha adottato Malik, che ora ha 5 anni. «Noi abbiamo trovato persone molto valide professionalmente e secondo me quello pre adottivo è stato un percorso molto utile. Il fatto è che parti da un’idea molto vaga, invece lì ti fanno capire bene tutti i contorni di questa esperienza. È normale che vogliano essere certi che la coppia sia in grado di affrontarla. Non solo, ti fanno capire che è necessario farsi aiutare, e che non c’è niente di male in questo».
Adottare un bambino infatti è molto diverso dall’avere un figlio biologico. È diverso anche dall’avere un figlio attraverso un’inseminazione eterologa. Tanto più che ormai molti bambini arrivano da noi già grandicelli: nel 2013, il 42,1 per cento aveva un’età compresa fra 1 e 4 anni, il 43,8 per cento fra 5 e 9 anni, l’8,8 per cento dai 10 anni in su, mentre solo il 5,4 per cento aveva meno di un anno.
«Noi non pensiamo all’eterologa come a un elemento antagonista dell’adozione, anche se è vero che i successi delle tecniche di fecondazione assistita hanno certamente influito sulla diminuzione delle adozioni in Italia», ci dice Graziella Teti. «Chi cerca una genitorialità di tipo biologico, però, fa un altro percorso. Il bambino adottato non può essere il sostituto del figlio che non si è potuto avere. Per questo noi lavoriamo molto con le coppie che vengono da fecondazioni non riuscite per aiutarle ad archiviare quel tipo di visione di genitorialità. L’adozione è accogliere un bambino che dietro di sé ha due altri genitori, magari dei fratelli, ha un’esperienza di vita, una cultura e un passato con cui lui e i genitori adottivi devono fare i conti tutta la vita. Ma la scoperta di amare profondamente una persona che non abbiamo generato, che è arrivata nella nostra vita attraverso un incrocio del destino, è una ricchezza. Dobbiamo vedere il bambino come qualcuno che ci fa imparentare con il mondo».
Per chiarire il concetto, il Ciai ha ideato una campagna, Lettera a me stesso, che si distacca dai cliché affidando il racconto del percorso di adozione alla spontaneità senza filtri di chi sperimenta le gioie, ma anche le ansie e le difficoltà di questa scelta. «Da una parte vogliamo promuovere l’adozione perché noi ancora ci crediamo. Dall’altra non vogliamo banalizzare il messaggio, non proponiamo l’adozione come un gesto salvifico e romantico», sottolinea Graziella Teti. «Secondo noi l’adozione è un percorso di genitorialità che ha aspetti meravigliosi, ma è anche esperienza faticosa. È importante sapere che si sta iniziando un processo anche molto duro, rischioso, come una salita in montagna, ma quando si arriva in cima si prova l’emozione più bella del mondo».
(Immagine di copertina tratta da Flickr, Sean Drellinger, Creative Commons)
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