Scuola
Abbiamo ancora bisogno dell’opera pedagogica della scuola?
“Il post Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina? Rappresenta un punto di non ritorno nelle strategie di comunicazione politica. Mai nessun avversario era stato messo alla gogna mediatica in questa maniera. Con l’esperimento compiuto su Laura Boldrini, Casaleggio e soci canalizzano per la prima volta la rabbia dei loro seguaci inaugurando la formula dell’istigazione dell’odio ad personam. Se parliamo di hate speech in politica, quello è il momento in cui il dentifricio esce dal tubetto”.
Attribuiamo spesso importanza alla scuola nel formare ragazzi che saranno la futura generazione e che in quanto medici, avvocati, giornalisti, operai, insegnanti, imprenditori avranno un ruolo sociale rilevante nel determinare il futuro del Paese in cui viviamo. La società, del resto, è la somma di individui che apportano in modo immateriale, con le loro idee, e materiale, con il loro lavoro più pratico, un contributo all’andamento dell’organizzazione politica ed economica di uno Stato. La scuola ha per sua vocazione ed è ufficialmente investita del ruolo di ente formatore. Questa pare una realtà lapalissiana, a limite dello scontato.
Spesso però ci dimentichiamo che la scuola è un anello, sebbene importante, di quel processo di formazione che non avviene solo nella scuola la quale è solo uno dei canali attraverso cui l’essere umano si forma. É formativa la lettura che non sia semplicemente di testi scolastici, i film che vediamo, la musica che ascoltiamo, lo sport che pratichiamo. La scuola, insomma, non esaurisce l’intero compito educativo, sebbene sia l’istituzione che viene riconosciuta universalmente come quella che ha la funzione di educare.
I primi essenziali rudimenti di istruzione e quindi educazione sono quelli che riceviamo in famiglia e che ci accompagneranno per l’intero arco della nostra vita. L’ambiente familiare è permeante, molto di più della scuola. A casa si ascolta i genitori parlare, si impara il linguaggio, la qualità dei discorsi fatti influenzeranno sicuramente la mentalità del bambino o del ragazzo. Per qualità, intendo sia la capacità di strutturare un discorso coeso e coerente e quindi più propriamente mi riferisco alle sua capacità lessicale e linguistica, sia all’eticità di quanto viene proposto all’orecchio del ragazzo che non è mai un ascoltatore passivo, ma incamera, come spugna, il credo, gli ideali, i valori di cui quei discorsi sono intrisi.
Ho lavorato a lungo in una scuola elementare, erano i primi anni in cui si parlava di raccolta differenziata, con molta fatica insegnavamo ai bambini come suddividere gli scarti e in quale sacchetto dovevano riporre ciò che avanzava. La difficoltà maggiore non stava nel fatto che i bambini capissero, i bambini sono spugne, e tanti progetti sul riciclo fissava loro in mente non solo l’istruzione, ma li rendeva consapevoli di un’idea a cui si affezionavano perché la comprendevano e la condividevano. La difficoltà maggiore era legata al fatto che tanti genitori, la maggior parte, non differenziavano e il bambino, tornato a casa, trovava una realtà che contraddiceva e quasi annullava il lavoro fatto dalla scuola. C’è voluto qualche anno perché i genitori si lasciassero educare dai loro figli ad adottare pratiche più sane per salvaguardare l’ambiente.
Un ambiente familiare riottoso a lasciarsi educare contrasta l’opera di formazione che la scuola cerca di realizzare.
Una scuola insegna non solo nozioni, ormai potremmo esserne imbevuti semplicemente reperendole dal web, la scuola è una collettività, in una classe insegnanti e alunni hanno un obiettivo comune: una crescita intellettiva e morale che serve a formare un uomo che spenderà quanto ha appreso sviluppando se stesso e allo stesso tempo al servizio degli altri, in qualità di cittadino. La scuola non è un campo militare, la disciplina scolastica non è semplicemente ordine, comando, disciplinare significa fare ordine e si riesce ad essere disciplinati se l’ordine è prima di tutto interiore. Un ragazzo disturbato difficilmente apprenderà, difficilmente verrà a scuola volentieri, non percepirà gli altri come compagni di viaggio, ma come seccature. Il primato dell’antipatia, chiaramente, spetterà al professore. Un buon equilibrio interiore è la premessa a qualsiasi possibilità di percepire la comunità scolastica come un luogo in cui lo studio è avanzamento e fortificazione della struttura del sé.
Ovviamente se un ragazzo pensa che venire a scuola sia incontrare gli amici per fare festa significa che ha maturato l’idea che deve adempiere solo a un obbligo scolastico che lo costringe ad essere presente fisicamente in un luogo da cui vorrebbe evadere. La scuola è sacrificio in quanto essere disciplinati implica spirito di abnegazione, ma al tempo stesso non è un sacrificio se la si percepisce come luogo accogliente in cui l’insegnante è colui che non solo facilita gli apprendimenti, ma è un mediatore culturale, cerca cioè di consentire ai ragazzi l’accesso alla cultura appassionandoli, dirigendoli e persino, perché no, scambiandosi saperi.
Se facciamo un salto indietro con la memoria, tutti ricorderemo insegnanti che ci hanno fornito un’illuminazione, ci hanno particolarmente appassionato al punto da orientarci verso gli studi universitari intrapresi, e quelli che invece abbiamo odiato al punto da avere un rifiuto persino nel provare a studiare la loro materia. La materia insegnata spesso appassiona nella misura in cui l’insegnante riesce ad entrare in contatto con l’alunno. Ecco, il contatto. Essere insegnanti significa toccare la vita di un alunno. Non si può andare in classe pensando che tutti raggiungeranno lo stesso obiettivo, saranno pronti e intelligenti allo stesso modo, in primis perché abbiamo tipi diversi di intelligenza, e poi, dato altrettanto fondamentale, proveniamo da ambienti diversi, abbiamo vissuti diversi. Ciò che può funzionare per ottenere un buon rendimento da un ragazzo, può non funzionare con un altro. Trovare il modo di entrare in contatto con chi si mostra impermeabile o addirittura riottoso verso quanto proposto è compito dell’insegnante.
Questo è il motivo per cui capita, non di rado, che l’insegnante chieda informazioni sulla famiglia, sul tipo di lavoro svolto dai genitori, sulla composizione del nucleo familiare, sui sogni, desideri, passioni.
L’insegnante, quindi, considera quegli esseri che si trova avanti la mattina prima ancora che suoi alunni, delle persone, e perciò cerca di conoscerli, di capirli, perché la declinazione di un obiettivo non può prescindere dall’obiettivo di conoscere l’altro.
Altra cosa fondamentale che si cerca di fare in una scuola, soprattutto in una secondaria di secondo grado avendo a che fare con adolescenti che saranno adulti quando termineranno questo ciclo di scuola reso in gran parte obbligatorio dalla legge, è sviluppare una capacità di presa di coscienza di se stessi. Sapere cosa fare in seguito della propria vita, significa conoscersi. Lavorare sull’empowerment, sulla capacità di potenziare attitudini, capacità, tra le quali c’è la lettura profonda di se stessi e di ciò che ci descrive, è essenziale in quanto dimezza la possibilità che le nostre scelte saranno gregarie e dovute al fatto che qualcuno ce le imponga dall’esterno; ci consente di avere il controllo delle nostre decisioni sia nell’ambito delle relazioni personali che in quello della vita politica e sociale.
Obiettivo della scuola, quindi, è sviluppare autonomia di giudizio che non è semplicemente una capacità che attiene al cervello, essa non può prescindere mai dalla capacità di sviluppo della consapevolezza di un sé interiore fatto di emotività, di passioni, di inclinazioni.
Sebbene ai tempi non mi fosse sembrata rivoluzionario il refrain “siamo donne oltre le gambe c’è di più” che una smilza Jo Squillo e una procace Sabrina Salerno cantavano inneggiando alle qualità spesso sottovalutate delle donne su cui l’occhio si sofferma valutandone semplicemente l’estetica, mi rendo sempre più conto di quanto il cammino per una parità di genere sia ancora oggi in salita, di come le donne spesso devono dimostrare di essere brave il doppio di un uomo perché se ne riconosca la bravura. Di come ancora oggi avere un bel corpo, curarlo, dedicarsi all’attività sportiva, sia sinonimo di essere una donna superficiale, buona a nulla, una che puoi facilmente portarti a letto, un’oca giuliva.
Il binomio donna piacente e intelligente non piace al mondo maschile, basti pensare a quanta satira si esercita ancora, persino in politica, sul corpo di una donna. Non sono le idee a essere vagliate, ma l’essere troppo grassa, troppo magra, il modo di vestire, non ciò che esprimi, ma quello che appari. Se sei una bella donna, poi, sicuramente avrai testato diversi materassi prima di poter arrivare a posizioni apicali.
Flavio Alivernini, in “La grande Nemica”, assembla “post dopo post, fake dop fake, un fotomontaggio dopo l’altro, le disavventure di una donna al centro del mirino, una donna che non hai mai prestato il su assenso ad essere oggetto. E non di desideri, ma di caccia, di odio, di furore cieco”: Laura Boldrini.
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