Società

25 anni dopo il crollo del Muro di Berlino, nel mondo hanno vinto i muri

9 Novembre 2015

E’ pacifico che chi stasera si autoconvocherà nell’area dove sorgeva il Muro di Berlino voglia festeggiare la libertà.
Ma venticinque anni dopo è anche opportuno chiedersi che cosa e come ricordiamo. A me pare che per quanto ci sia molto da ricordare, forse non abbiamo molto da festeggiare. Abbiamo invece molto da riflettere. Almeno su due questioni.

La prima: i muri non sono scomparsi in questi 25 anni. Anzi sono aumentati. Soprattutto hanno cambiato funzione: da barriere per trattenere sono diventati confini per non far avvicinare.
I muri sono quasi sempre «strumenti politici». Muri di separazione come quello tra Israele e i Territori e la Striscia di Gaza, muri dei ghetti e di segregazione – quelli all’interno dei quali vivono i cittadini bianchi del Sudafrica, le peacelines di Belfast o il recente e criticatissimo muro «anticrimine» di via Anelli, a Padova –, muri «di contenimento» come quello che corre lungo il confine del Texas e del Messico, muri di esclusività che consentono la sicurezza ai quartieri dell’attuale upper-class nelle zone di lusso dei nostri centri urbani.
Ergo: la gran parte di noi che festeggia la caduta del muro a Berlino, forse festeggia la sconfitta di un nemico, ma non festeggia il crollo del muro semplicemente perché, molti non sono così disponibili a far crollare o a indebolire altri muri.

La seconda: quale futuro abbiamo di fronte. Questione che si potrebbe sintetizzare nella seguente: Siamo riusciti in questi 25 anni a ridurre i margini della disperazione? In breve quell’89, quanti individui ha liberato? Chi è riuscito a mantenere la promessa di una vita migliore?
La risposta è semplice: non c’è riuscito. Quell’’89 a differenza del suo antenato settecentesco non ha concesso più garanzie a chi non ne aveva e per certi aspetti ha mangiato garanzie a chi ne godeva.
Il nostro presente, almeno visto col cannocchiale di quell’89 presenta due fallimenti.

Primo fallimento: siamo molto lontani da vivere una condizione di libertà, il che vuol dire una condizione di fuoriuscita dall’indigenza per molti.

Secondo fallimento: il martirio è un’esperienza che esercita un grande fascino. L’idea di martirio oggi gode oggi di una salute fantastica. Una saluta invidiabile e terribile.
La libertà oggi non è solo, e forse nemmeno prevalentemente, meno indigenza. Oggi più libertà è banalmente più libertà, ovvero fuoriuscita dal fascino dei nuovi totalitarismi, del paradiso da conquistare. Rimanere sudditi di quel fascino passa per la retorica del martirio presentato come una delle tappe intermedie essenziali per il conseguimento di quella libertà. Un martirio che non è quello di sacrificarsi perché tutti siano liberi, ma è quello di sterminare coloro che sono classificati come nemici, ancora di più se appartenenti al proprio stesso gruppo, perché percepiti come ostacolo al raggiungimento della felicità.

Una filosofia politica che è la riproposizione del meccanismo totalitario. Una pratica di governo dei sudditi fondata sul principio di considerare, come scriveva Aldo Capitini, tanti anni fa, “gli uomini come cose tanto che ucciderli è un rumore di un oggetto caduto”.

 

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