Costume
23 maggio 2021, non dolore ma disgusto
Questa mattina mi sono svegliato abbastanza presto, come mio solito. Sarà l’età, sarà il peso psicologico di questo lungo periodo dominato dalla pandemia ma, di fatto, le mie ore di sonno sono inferiori alla mia già bassa media.
Questa mattina, però, la mia voglia di alzarmi era, per così dire, affievolita dalla specifica giornata, il 23 maggio.
Dolore? Non più. Principalmente disgusto perché quest’anno, dopo il fermo biologico dello scorso anno dovuto alla pandemia, sapevo che avrebbero riaperto l’immensa passerella istituzionale, ma non solo, nella giornata in cui la mafia mise a segno uno dei suoi attacchi allo Stato. L’aula bunker, orfana di Vincenzo Mineo, ha oggi riaperto le sue porte al manicheismo e all’ipocrisia. Sulle Sacre Scritture c’è scritto che il giovane Gesù di Nazareth, figlio di un falegname e di una vergine, cacciò i mercanti dal Tempio ma egli stesso avrebbe fatto fatica a cacciare i “mercanti dell’antimafia” dall’aula bunker.
E poco importa se i mercanti di oggi vestono con giacca e cravatta e rappresentano le istituzioni, direttamente o indirettamente. E poco importa se siedono nei consessi internazionali divulgando il verbo a spese della comunità. E poco importa se accedono a innumerevoli risorse economiche dispensando, di fatto, il loro verbo antimafioso a suon di centinaia di migliaia di euro. Oggi è il giorno del ricordo e a loro è permesso tutto. Sì, permesso tutto, compreso il fatto di utilizzare una giornata all’anno per incontrarsi, mettersi in mostra e mettere in evidenza il lato di sé peggiore, quello dell’ipocrisia che però viene spacciata come sentimento antimafioso.
Quel “covo di vipere”, come lo definì nel giugno del 1992 il dottor Paolo Borsellino, è ancora una volta in prima fila tanto quanto non è mai in prima linea.
A loro, nostro malgrado, si uniscono i leoni da tastiera che affollano i social, quelli che riempiono il loro profilo con post sul dottor Falcone e sul dottor Borsellino, trattandoli come loro cugini, chiamandoli per nome e, soprattutto, interpretando il loro pensiero e dispensando la qualifica di eredi alla nuova moltitudine di magistrati che, in realtà, sono distanti anni luce da loro che, nel bene e nel male, hanno rappresentato e rappresentano un’unicità.
Oggi nei social è stata apparecchiata la ghiotta tavola dei click, quei consensi virtuali che fanno sentire unici e importanti tutti coloro che postano foto della strage di Capaci e icone delle vittime. Quanti click fa una foto di Falcone? Tanti, anzi tantissimi ed è diventata strumento di autocompiacimento e di leadership di quella maggioranza, non silenziosa. Quegli pseudo leader che Attilio Bolzoni nei giorni scorsi sulle colonne del Domani ha definito “influencer dell’antimafia”. Selfie con magistrati, con familiari delle vittime, con presunti storici e divulgatori che, in quegli anni non erano ancora nati e, se lo erano, vivevano nell’ignavia e nella prima regola che veniva insegnata a ogni buon siciliano sin dalla nascita, ossia voltarsi dall’altra parte e, soprattutto, farsi i fatti propri.
Influencer che hanno letto, ovviamente senza capirne il contenuto, poche righe fuori contesto e le hanno trasformate in slogan di conoscenza. Influencer che, tra la foto di una coscia, di una spalla scoperta, di un décolleté compiacente, di abiti griffati e di un gattino che ti guarda con sguardo mieloso, dispensano giudizi e, cosa ancor più grave, si ergono a profonditori di una storia non ancora definitivamente scritta e della quale possono essere, tutt’al più, stupidi cronisti che non conoscono la lingua italiana della quale fanno un uso disastroso. Non gratificati da questo, complice la DAD ossia la famigerata didattica a distanza, entrano nelle scuole e arringano giovani menti istillando loro il loro verbo fatto di complotti, collusioni, entità esterne e di giudizi su sentenze passate in giudicato a meno che non siano state emesse da quei giudici che loro, dall’alto della loro infinita pochezza, ritengono infallibili quasi come lo sono loro. Si tratta di novelli portatori di odio e di revisionismo tant’è che, alla prova dei fatti, ossia quando si “fanno parlare le carte” si trincerano dietro il concetto di “libera opinione”, della loro capacità di valutazione dei fatti solo perché hanno ascoltato spezzoni delle registrazioni di Radio Radicale o la versione ammaestrata proposta da sedicenti testate giornalistiche che, per il loro modello di gestione, dovrebbero rendere conto all’opinione pubblica. Ancora una volta, il popolo dei social ha introdotto il reato di “lesa maestà” che viene applicato a quanti sono critici nei confronti del pensiero unico tipico dell’attuale antimafia dei salotti e delle sale da thè, quella antimafia che indossa una maglietta su cui sono trascritti slogan per aumentare la propria visibilità e per non doversi preoccupare dei contenuti perché secondo loro anche per chi fa antimafia, come se fosse un’attività professionale, è più importante l’apparire di quanto non lo sia l’essere. E di nuovo selfie, slogan e foto di Falcone nel loro profilo.
Devo ricordare il fastidio dei palermitani nei confronti del rumore delle sirene delle auto di scorta? Devo ricordare che oggi chi in quegli anni viveva grazie al denaro dispensato dalla mafia o nei lussuosi appartamenti frutto del “sacco” di Palermo veste i panni di paladino della legalità salvo poi parcheggiare in terza fila, scavalcare qualsiasi coda gli si pari davanti e, soprattutto, accreditandosi come novello David davanti al gigante?
Intanto oggi si è provato un copione che sarà replicato il prossimo 19 luglio, in occasione dell’anniversario della strage di via d’Amelio. E proprio oggi, il 23 maggio, devono ringraziare la “zona gialla” e il “coprifuoco” spostato di un’ora perché così potranno continuare la loro conviviale adunata nel ristorante alla moda, nei locali da aperitivo e nel dispensare sorrisi e papali cenni di mano per salutare i propri fans lungo la strada.
Non più dolore ma disgusto, disgusto misto alla consapevolezza che nessuno è realmente preoccupato di restituire a una Nazione martoriata ininterrottamente dal 1947 a oggi, la verità che è fatta di “chi” ma anche di “perché” a meno che i “perché” non siano integranti delle loro improbabili tesi. E se i “chi” portano a delegittimare la verità, poco importa. Oggi il capro espiatorio di moda è rappresentato dai morti, quelli che non possono più fornire la propria versione dei fatti.
Non più dolore ma disgusto nei confronti di quelli che certificano l’improbabile svolgimento degli eventi, il modello di reazione e ribadiscono il ruolo di esperti infallibili agli influencer dell’antimafia. Siamo ben oltre la sciasciana considerazione di “professionisti dell’antimafia”. Lo stesso intellettuale siciliano oggi non avrebbe parole e farebbe parte di quel gruppo di persone tacitate dalla “spirale del silenzio”.
Quella “spirale del silenzio” che il costante, contemporaneo, ridondante e contorto afflusso di notizie da parte dei media e dei social, causa un’incapacità nel pubblico di selezionare e comprendere i processi di percezione e di influenza dei media.
Quella “spirale del silenzio” generata da quanti enfatizzano opinioni e sentimenti prevalenti e che portano alla riduzione al silenzio delle opzioni minoritarie e dissenzienti.
Quella “spirale del silenzio” che disincentiva molti dall’esprimere apertamente e riconoscere un’opinione per paura di riprovazione e isolamento da parte della presunta maggioranza perché percepisce essere contraria all’opinione della maggioranza.
Quella “spirale del silenzio” che fa aumentare la percezione collettiva, non necessariamente esatta, di una diversa opinione della maggioranza, rinforzando, di conseguenza, in un processo dinamico, il silenzio di chi si crede minoranza e che inevitabilmente trasforma la maggioranza in portatori di verità e di pensiero unico.
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