Perché i “Born in the 50’s” (come me) mi fanno schifo
Mi risuona da un po’ di giorni a questa parte una canzone dei Police, presente in quello che penso essere il loro miglior disco, “Outlandos D’Amour”, che si intitolava per l’appunto “Born in the 50’s“.
Mi risuona e mi risuonava ben prima del tweet di ieri del governatore Toti che ha destato scandalo e disdoro in molti benpensanti perché – in effetti – per come è stato scritto richiamava echi di mengeliana memoria: per chi produce, vita; per gli altri disinteresse. Anche se, va detto per quelli che danno del nazista a Toti, la compassione già nell’infelice tweet si leggeva. La rettifica, codarda, ha chiarito poi la gaffe, dimostrando ancora una volta che a questi dannati politici andrebbero tolti i social. Ma, come dicevo, il motivetto della canzone di Police mi risuonava da giorni. Perché io sono uno di quelli nato negli anni ’50. E, lo confesso, in quanto soggetto generazionale, mi faccio discretamente schifo.
La pandemia da Covid-19, infatti, ha nuovamente messo a nudo l’ipocritamente spudorato egoismo connaturato alla mia generazione.
Non voglio dire che anche Walter Siti che su “Domani” scrive “se i vecchi sparissero di colpo, questa pandemia verrebbe degradata a virus fastidioso ma tollerabile”, in fondo porta il ragionamento in un punto crudo ma estremamente reale. I vecchi contano. I vecchi, anche quando sono improduttivi – per dirla à la social media manager di Toti – sono essenziali per una società. E non solo perché sopperiscono alle endemiche carenze di welfare familiare supportando sfiancate giovani coppie, ma perché sono portatori di saggezza, di buoni consigli, di esperienza.
Ma i miei coetanei stanno dando il peggio del peggio che sono stati.
Siamo la generazione che ha vissuto il più vivace periodo della storia contemporanea, denso di voglia di futuro perché costruito sulle macerie fumanti di una guerra e di una dittatura devastante; sapevamo, dai racconti dei nostri padri e madri, quale era il prezzo di una libertà soffocata e, per questo, ci siamo agitati come ossessi per affermare questa libertà sopra ogni cosa. Siamo la generazione che, come cantava Sting, “We were the class they couldn’t teach/’Cause we knew better” in cui ci siamo fottuti dell’autorità per innescare processi di contestazione. Siamo la generazione che ha potuto vivere, senza incubi virologici di ogni sorta (l’AIDS sarebbe arrivato tanto dopo) le giovanili esplosioni si sessualità libera e liberata. Siamo quelli che, viste le condizioni in cui siamo cresciuti, hanno potuto godere di una prospettiva di futuro solida che – abilmente e con intelligenza – abbiamo occupato in ogni ganglio: stampa, potere, università. E chi più ne ha più ne metta. Siamo quelli, infine, che hanno letteralmente inculato i posteri piegando il sistema pensionistico alle nostre pingui esigenze: pensioni baby e pensioni d’oro, due facce del medesimo scandaloso dileggio del “bene comune”, sono figlie nostre.
E oggi, di fronte al primo vero disastro che la nostra vita di bamboccioni cresciuti a pane e privilegi si trova ad affrontare, noi che siamo tra i sessanta, settanta e gli ottant’anni, presi dalla strizza di rimetterci la nostra pelle raggrinzita ma tonificata dalla palestra, dalle camminate mattutine o dal nuoto che possiamo permetterci da anni – potendo noi godere da tempo del “Tempo” – ci comportiamo da quel che siamo sempre stati: dei piccoli, viziati, tiranni.
Perché non ce ne fotte niente dei nostri nipoti, dai più piccoli a più grandicelli, a cui – per proteggere la nostra libertà di fare quello che ci pare e piace – viene tolta la scuola, ossia il luogo dove noi abbiamo sentito per la prima volta il palpito del futuro tra le nostre mani. Perché non ce ne fotte niente del destino di giovani professionisti che si vedono privati della possibilità di lavorare in maniera stabile (da anni, a dire il vero): a noi, figli dei “diritti acquisiti” che cosa dovrebbe interessare di poveretti incapaci di aggregarsi per acquisire nuovi diritti? Perché siamo terrorizzati dall’idea di morire di un virus che, diffondendosi di fatto dove c’è vita, fa rischiare soprattutto noi di restare secchi; quindi, siccome noi vogliamo continuare a goderci i nostri privilegi, prima si rinchiudano tutti in casa e poi parleremo del resto.
Siamo una generazione di falliti. I nostri sogni sono diventati gli incubi di chi arriva dopo di noi. Perché a noi, di chi sarebbe venuto dopo di noi, in fondo nulla importava. A noi, figli del boom, interessava (e interessa) solo di noi stessi.
Una ragione forse l’ho capita. E me l’ha disvelata un giovane, intelligente e preoccupato, amico. Mi ha detto: “Sai qual è il problema? Voi avete voluto uccidere il padre con violenza; buttando via tutto, anche il buono che c’era. Avete passato una vita a difendervi e a contribuire alla nostra disgregazione perché temevate che potesse nascere una nuova generazione che avrebbe ucciso i propri padri allo stesso modo.” Tutto vero: siamo dei codardi. Ma così facendo stiamo salvando ancora una volta noi stessi, uccidendo il futuro.
Chiudeteci in casa. A lungo. Sperando che, vedendo negli occhi il poco futuro che ci resta dinnanzi, recupereremo un po’ del nostro “rivoluzionario” spirito delle origini, ripescando il meglio delle idee che ci hanno animato. Per ridare, in ritardo e come compensazione, un po’ di speranza ai giovani d’oggi.
E a voi giovani dico: non siate timidi. Contestateci, organizzatevi, ribellatevi. Solo così, in fondo, ci farete sentire ancora, veramente, vivi.
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