Le parole che hanno rotto il cazzo
Nell’impoverimento linguistico e comunicativo in cui siamo immersi, c’è un fenomeno che non riesco più a sostenere dal punto di vista psicosomatico. Nel senso, sincero, che quando leggo titoli di giornale, programmi di convegni, note di agenzia o ascolto parolai d’ogni fatta in cui tornano una serie di parole, mi prende un attacco all’epiglottide con un senso di soffocamento associato a una coprolalìa dura.
Infatti, nello scrivere questo titolo dopo aver letto per l’ennesima volta “Green new deal” ho cercato sinonimi di “cazzo”, provando persino a rileggermi “Er padre de li santi” del grande Giuseppe Gioacchino Belli; non ce l’ho fatta: cazzo rotto era e cazzo rotto resta.
Ma veniamo al dunque; quali sono le parole che mi provocano una pre sindrome di Tourette?
Provo a raccoglierle, partendo proprio da “Green New Deal”: fino a qualche mese fa nessuno sapeva cosa fosse questa cosa o, meglio, a nessuno (nella massa del mainstream politicante/comunicativo, per la precisione) fregava niente di ambiente, verde e annessi. Oggi pare che non si possa fare niente senza connetterlo al “Green New Deal”: cementifichi dieci ettari di campagna per mettere un complesso logistico ma lo fai con tecnologie verdi? GND (Green New Deal). Fai sterminate città in Cina ma ci pianti alberi sui balconi di calcestruzzo armatissimo? GND. Capisci che se non fai qualche aggiustatina comunicativa alla strategia delle tue speculazioni finanziarie il popolo bue magari si imbufalisce e viene a prenderti con le mazze chiodate e quindi annunci investimenti solo Green (new deal)? GND. Insomma, un’orgia verde in un mondo sempre più grigio.
Poi c’è la parola “tragedia”. Questa la sparano per tutto: da un incidente in auto con feriti a una figliata di gattini rimasti sotto uno schiacciasassi. La tragedia è ormai una carezza rassicurante per confortare l’ansia sociale che serve per tenere a bada il popolo.
Passiamo poi alla parola “comunità”. In una società – inavvertitamente ho citato l’immenso Ferdinand Tönnies – in cui non esiste uno straccio di afflato collettivo e prevale un solipsismo narcisistico dopato da steroidi cognitivi, è tutto un florilegio di “comunità”, “community” e “comune”. Spesso, ahimè, a puro uso di marketing estrattivo.
A ruota c’è “sociale”. Il “sociale” è come il vecchio e profumato prezzemolo: va dappertutto. Ma, come il prezzemolo con il suo olio può avere effetti abortivi, così il sociale messo in ogni dannato contesto rischia di uccidere ciò che di autenticamente sociale resta. Oggi l’uso della parola “sociale” andrebbe sempre analizzato, per capire cosa nasconde dietro e se serve, a chi l’ascolta, vaselina o una protezione anale.
Che dire poi di “inclusivo”? Che iattura, dannazione. Oggi tutto deve essere inclusivo, per poi arrivare a capire che una siffatta logica appiattente, melensa e poco formativa delle abrasioni che la vita si porta appresso, produce una società drammaticamente “esclusiva”. Ciò lo si vede in particolare nella scuola pubblica. Con la filosofia inclusiva va sempre tutto bene: voti alti, pudore a prendere provvedimenti disciplinari nei confronti di creature che brutalizzano gli insegnanti, impossibilità a bocciare. Con il risultato che il livellamento verso il basso è inesorabile. E che chi è povero, di spirito e mezzi, sempre più povero resta.
L’elenco potrebbe continuare e, anzi, magari si può aggiornare. Resta un fatto, rispetto a queste parole, che mi sento di condividere. In generale quando una cosa la si nomina di continuo, la si ripete, è perché di quella cosa si ha – consciamente o meno – una grande e insopprimibile nostalgia. O un grande e insopprimibile desiderio.
Forse, dunque, sarebbe meglio parlare meno e fare di più. Avremmo una società più responsabile dal punto di vista ecologico, in cui il senso di collettività sarebbe radicato nelle persone e nel “sociale”, col risultato di avere una inclusione spontanea dei molti verso l’alto, evitando la tragedia di una società vuota.
Ed evitando, in ultima analisi, più robuste fratture del mio – come direbbe il Belli – “pezzo de carne”.
2 Commenti
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FOSSE VERO CHE IL POPOLO , GIAì DA DOPO IL 1960 FOSSE ANDATO A PRENDERLI CON LE MAZZE CHIIODATE …….. L’ UNICO CHE SI SALVA , IN QUESTI 70 ANNI è PERTINI
Bello con spunti dal Belli ma distante dai Bulli, l’ossatura (di carne) del pezzo. Invero, forse si potevano indicare altre parole sospinte dagli onanisti erranti su neuroni specchio, la parola “sociale” condisce i discorsi e profuma i gli scritti da vari decenni, per non dire di “tragedia” ma … quanno ce vò, ce vò !