Sindacati
Germania, la pandemia vista dai lavoratori
Conversazione con Richard Ulrich (Ver.di, Francoforte) e Pablo Alderete (IG Metall, Stoccarda)
Finora la Germania pare subire in modo meno drammatico gli effetti del coronavirus. Ma oltre alle conseguenze sanitarie della pandemia c’è il capitolo relativo all’impatto economico di questa crisi sulla ‘locomotiva d’Europa’ e in particolare sui lavoratori tedeschi. Un tema che dal punto di vista italiano assume un rilievo particolare a causa dello stretto rapporto che unisce la nostra industria al sistema economico tedesco. Solo nel comparto della componentistica auto operano oltre 2.000 aziende italiane, in gran parte al servizio dei colossi automobilistici tedeschi, con un giro d’affari che qui da noi ormai ha superato quello della produzione automobilistica vera e propria e che attraversa una fase delicata a causa della transizione all’elettrico. Insomma se le fabbriche del nord Italia chiudono per le grandi case automobilistiche tedesche è un problema, ma, simmetricamente, se l’automotive tedesco rallenta nel nord Italia si rischia uno shock occupazionale. Per questa ragione abbiamo tentato di capire come il mondo del lavoro tedesco sta vivendo questo periodo travagliato, con quali conseguenze e prospettive sul piano sociale, politico e sindacale. Ne abbiamo parlato con un lavoratore della sanità e uno dell’industria automobilistica che militano nei due più grandi sindacati tedeschi: Richard Ulrich, infermiere presso la clinica universitaria di Francoforte ed esponente di Ver.di e Pablo Alderete, fiduciario della IG Metall alla Daimler di Stoccarda-Untertürkheim (19.000 dipendenti).
Cominciamo dalla situazione sanitaria. La stampa italiana parla di un impatto decisamente più lieve della pandemia in Germania. E’ così?
RU: All’apparenza non ci abbiamo ragioni per dubitarne. Io non sono un virologo e non mi occupo di statistiche per lavoro, ma pare che le cose stiano andando così, in piccolo, anche nella clinica in cui lavoro. Essendo una clinica universitaria svolge anche un servizio pubblico in ambito regionale ed è un grosso centro di cura del COVID-19. I reparti sono stati riorganizzati, gli interventi non urgenti cancellati e sono stai liberati posti letto, ma finora il temuto assalto non c’è stato. Il reparto di terapia intensiva è abbastanza saturo, ma situazioni come quelle di cui purtroppo vediamo arrivare le immagini dall’Italia o dalla Spagna finora ci vengono risparmiate.
Tu che la vedi da dentro ti sei fatto un’idea del perché la sanità tedesca sta reggendo meglio che in altri paesi?
RU: Ci sono molte ragioni, non credo che si possa dare una risposta univoca. Da una parte c’è il fatto che la Germania ha molti più posti di terapia intensiva, sia in termini assoluti che in rapporto alla popolazione. E su questo divario pesa soprattutto il fatto che la crisi economica ha colpito in modo più duro i paesi del sud Europa e ci sono stati tagli più rilevanti alla spesa sociale e sanitaria, politiche di cui il governo tedesco è stato ispiratore giocando un ruolo nefasto. Qui invece, anche se ci sono stati e continuano ad esserci tagli alla spesa. Negli ultimi anni c’è stata una discussione sulla chiusura degli ospedali e gli studi della Bertelsmann-Stiftung, vicina all’equivalente della vostra Confindustria, hanno sostenuto che avrebbe senso chiuderne la metà. Ma in ogni caso i tagli non sono stati indiscriminati come in altri paesi. Un secondo aspetto è che qui abbiamo avuto più tempo per prepararci. E’ vero che non è stato usato nel modo migliore. Diversi Länder hanno agito in modo scoordinato, ma le misure di contenimento sembrano funzionare. I virologi, che qui sono diventati delle vere e proprie star per l’esposizione mediatica di cui godono, sostengono anche che sul contagio potrebbero aver influito in qualche misura le differenze di struttura delle famiglie nei diversi paesi. Ma anche l’età dei primi soggetti colpiti dal virus potrebbe essere stata decisiva. Se da voi in Italia mi pare che il virus si sia diffuso molto rapidamente tra gli anziani, qui sono state colpite soprattutto persone che erano andate in settimana bianca o avevano preso parte ai festeggiamenti di carnevale e lavoratori, quindi soggetti relativamente giovani e sani.
Che impatto ha avuto il virus in termini sanitari e sociali?
PA: Con lo scoppio dell’epidemia anche nel nostro posto di lavoro si è cominciato a discutere se proseguire o meno la produzione. Non con la stessa foga di Vitoria, in Spagna, dove i dipendenti della Daimler semplicemente si sono rifiutati di continuare a lavorare. Ma in ogni caso anche in fabbrica da noi i colleghi hanno espresso le proprie opinioni, hanno protestato coi loro capi, sono andati in consiglio di fabbrica e ne sono nate molte discussioni. Una parte dei dipendenti voleva tornare subito a casa, un’altra vedeva la situazione in modo meno drammatico. Era assolutamente chiaro che i lavoratori in produzione, in particolare quelli alla catena di montaggio, erano penalizzati, perché lavorano a contatto in spazi ridotti. Gli impiegati in quei giorni – era circa il 18 marzo – erano stati in gran parte già messi in smart working. A quel punto il consiglio di fabbrica della IG Metall e la direzione aziendale hanno concordato una sospensione della produzione di due settimane per superare quella diversità di trattamento. I dipendenti hanno dovuto coprire queste due settimane con le proprie ferie o i permessi, cioè le ore prese dalla banca ore a disposizione di ogni impiegato e che in generale è compresa tra -150 e +150 ore. Una parte dei colleghi si è lamentata di questo aspetto, un’altra invece è stata contenta di poter rimanere a casa. Evitare lo scontro in fabbrica è stato anche il modo per concordare l’applicazione dell’orario ridotto che a Stoccarda-Untertürkheim è in vigore dal 6 aprile. L’orario ridotto viene indennizzato con un assegno che copre dall’80% all’87% del salario netto. Una parte la paga lo Stato (la Agentur für Arbeit) mentre un’integrazione la pagano la imprese in base a quanto stabilito dal contratto dei metalmeccanici. La maggior parte dei colleghi ad aprile è stata a casa con lo stipendio ridotto. In generale però gran pare dei benefici.
RU: Sul piano sociale la situazione è più complessa e non c’è una risposta univoca, ma vediamo che la pandemia ha effetti diversi e in parte contraddittorii che si influenzano reciprocamente. Ad esempio è comparso il concetto di lavori di ‘utilità sistemica’. Agli occhi dell’opinione pubblica è cresciuta rapidamente l’importanza di tutti coloro che non possono lavorare da casa perché la loro opera è necessaria per mandare avanti la società. Si tratta perlopiù di lavori malpagati, spesso dei cosiddetti ‘lavori da donne’. Oltre a noi operatori sanitari ci sono i lavoratori del commercio, quelli del trasporto pubblico e dell’igiene ambientale. Il riconoscimento sociale figure in questi giorni si esprime attraverso atti come gli applausi che i cittadini rivolgono a questi lavoratori dai balconi di casa o piccoli doni consegnati loro durante il servizio. Questa crisi ci dà l’opportunità di trasformare questo riconoscimento simbolico in una forza da sfruttare nelle future mobilitazioni sindacali.
A Pablo raccontiamo che in molte fabbriche italiane i lavoratori hanno scioperato contro la violazione delle norme di sicurezza e la mancanza di dispositivi di protezione e gli chiediamo quale sia la sua esperienza.
PA: Qui al momento Daimler e Bosch producono da sé le mascherine, principalmente per i propri dipendenti. Nell’impianto di Stoccarda-Feuerbach la Bosch ha due linee di produzione completamente automatizzate dedicate e a Waiblingen, sempre nella regione di Stoccarda, produce anche Vivalytic, la macchina per le analisi utilizzata per i test rapidi del coronavirus. Insomma qui si sono attrezzati rapidamente, anche perché l’intera regione è enormemente dipendente dall’industria dell’auto.
Nel settore della sanità a marzo abbiamo letto sulla Junge Welt di un consorzio di aziende sanitarie (BG-Kliniken) che ha approfittato della crisi per disdettare un accordo sindacale firmato a febbraio e tagliare il costo del lavoro alla vigilia di un impegno straordinario come quello della lotta contro il COVID-19. E’ un caso isolato o ci sono altri esempi?
PA: Tieni conto che questa crisi colpisce l’industria automobilistica in un momento in cui le vendite, già da prima dell’epidemia, sono scese in modo rilevante. Nel 2017 la produzione mondiale di auto è stata di 99 milioni di unità, per il 2020 il capo della Bosch Volkmar Renner a dicembre prevedeva solo 89 milioni, ma questo valore è destinato a scendere ulteriormente. In Cina nel primo trimestre di quest’anno il PIL è sceso del 6,8% rispetto a quello del 2019: è solo un assaggio della crisi economica che seguirà. Mi chiedi se i padroni cercheranno di approfittare di questo shock per flessibilizzare il lavoro, fare ‘razionalizzazioni’, aumentare il grado di sfruttamento? Sì, certo. Dobbiamo chiederci solo come, dove e quando. Del resto con questa strategia delle imprese i lavoratori tedeschi avevano iniziato a confrontarsi già l’anno scorso, quando il problema era rappresentato ‘soltanto’ dalla crescente concorrenza internazionale tra compagnie automobilistiche e dalle trasformazioni nel settore della mobilità. Dal mio punto di vista vedremo rapidamente se la politica di concertazione della IG Metall supererà questa crisi. Il sindacato negli ultimi anni di boom economico ha reclutato molti nuovi iscritti e gode di salute relativamente buona. Com’è tradizione ha le sue entrature al Ministero del Lavoro, che anche oggi è diretto dalla SPD, per quanto quest’ultima tra i lavoratori abbia perso credibilità. Nella forza-lavoro organizzata dell’industria automobilistica l’equazione IG Metall-Associazione Industriali-SPD/CDU=concertazione negli ultimi anni è servita anche a preservare una relativa situazione di stabilità.
Da una parte quindi i lavoratori escono rafforzati sul piano dell’immagine, dall’altra la imprese cercano di sfruttare la situazione: come se ne esce e cosa possono fare sindacato e sinistra?
RU: Prima dicevo che i lavoratori hanno accumulato un patrimonio di credibilità che può essere trasformato in forza. Riuscirci però non è cosa da poco. Se, ad esempio, nei posti di lavoro nei prossimi mesi si muoverà qualcosa dipenderà dal fatto che ci siano degli attivisti sindacali che cercano di organizzare i dipendenti attorno ad alcune rivendicazioni. Se parli di sinistra anche il partito della LINKE avrà delle responsabilità. Potrà, ad esempio, appoggiare piccoli movimenti che si sviluppano tra i lavoratori a macchia di leopardo e portare le loro lotte sul palcoscenico della politica trasformandole in proposte. La ristrutturazione del settore sanitario per farne un sistema orientato a soddisfare i bisogni sociali o la statalizzazione degli ospedali, delle aziende farmaceutiche sono alcune delle proposte che potrebbe adottare.
Non c’è il rischio che a trarne profitto sia anche la destra, che in Germania si sta rafforzando?
RU: E’ chiaro che questa crisi sta rafforzando anche alcune spinte a destra. Ciò che fino a sei mesi fa era inconcepibile oggi è diventato realtà. La polizia scioglie con mano ferma anche la più piccola manifestazione. E anche se alcuni giudici hanno riconosciuto che è possibile autorizzare alcune manifestazioni, giudicando caso per caso le condizioni di sicurezza, al momento di fatto la libertà di manifestare è soppressa. E’ difficile pensare a degli scioperi in queste condizioni. Ci sono addirittura parecchi episodi in cui la gente denuncia il vicino di casa perché ha invitato un amico per un barbecue, infrangendo le misure del Governo. Per fortuna però l’AfD finora non è riuscita ad approfittare della crisi e al momento la sua azione è a stento percettibile.
Volete lanciare un messaggio ai lavoratori italiani?
RU: Non voglio fare appello a un inutile volontarismo, però credo che almeno in parte come i lavoratori usciranno dalla crisi dipenderà anche dall’atteggiamento della sinistra e del sindacato, in Germania ma anche a livello internazionale. E in questo senso voglio anche lanciare un messaggio ai lavoratori e alla sinistra italiana. Credo che possiamo fare dei passi verso il superamento di questo sistema solo se ci muoviamo insieme. Anche se l’imperialismo tedesco sembra onnipotente e l’Europa sta soffrendo gli effetti della sua leadership anche in Germania c’è solidarietà verso gli altri lavoratori europei e i lavoratori si organizzano e resistono. Dunque, non lasciamoci scoraggiare!
PA: Certo, mi associo.
La conversazione è tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del 28 aprile.
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