Geopolitica
Una Primavera Balcanica?
Un’ondata di agitazioni e proteste in Serbia fa sobbollire i Balcani, i vicini dell’Est. Un’area spesso dimenticata dell’Europa che, dopo la guerra, è ancora divisa tra modernizzazione e polarizzazione.
L’articolo che segue è stato pubblicato sulla newsletter di PuntoCritico.info l’11 Febbraio 2025
Christian Eccher è docente di lingua e cultura italiana presso l’università di Novi Sad, il centro nevralgico delle ultime proteste. Qui cadde la pensilina della stazione, incidente che uccise 15 persone. Qui ebbero inizio le proteste degli studenti contro i mancati controlli e, più in generale, la corruzione. Situata in una provincia abbastanza agiata del Paese, la città è tornata nei discorsi del presidente Vučić alle prese con le richieste di maggiore autonomia in Vojvodina, la regione di cui è capoluogo.
Eccher, come professore e giornalista, vede la proteste da vicino, ne sente parlare più o meno sottovoce dai suoi alunni. Ed è molto cauto sull’ottimismo che stanno generando: «È difficile fare una previsione, certo si tratta di una manifestazione che non vedevamo da anni ed è diversa dalle altre: in primis perché è spontanea e apartitica, in secondo luogo è nata dagli studenti, per poi allargarsi ad altre categorie». Tuttavia, le proteste iniziate in questi mesi potrebbero non portare a cambiamenti radicali. «Ci sono due problemi fondamentali. Il primo: chi raccoglie le richieste della piazza? Le persone che sono in strada oggi non hanno partiti, o movimenti, che possano rappresentarli in parlamento. Se anche i leader di queste proteste, gli studenti più coinvolti – si chiede Eccher – decidessero di entrare in politica, dove potrebbero farlo?». E aggiunge: «Gli studenti sono divisi tra loro. Si sentono cittadini del mondo, ma quando si arriva a determinati temi preferiscono sviare, dicono “ne parleremo dopo, se no litighiamo tra noi”. Per cui c’è il rischio che anche se si arriverà a un cambiamento, si infranga di fronte alle tematiche solite: i nazionalismi, il Kosovo, la Repubblica Srpska… e su questo nessuno sembra avere le idee chiare». Alcuni partecipano ai blocchi e alle occupazioni, tanti altri restano a casa in attesa che finiscano le proteste. E iniziano a esasperarsi. «Nella mia facoltà, su 5 mila circa studenti iscritti ci saranno 100 persone che vengono in università. E ad alcuni questi blocchi iniziano a pesare».
Una Grande Serbia, o due Serbie?
«Il problema è che ci sono due Serbie che dovrebbero cominciare a dialogare tra di loro» commenta Eccher, aggiungendo «le proteste sono concentrate nelle città e per ora sono di carattere borghese. Qui ci sono due Paesi: c’è la classe media, i giovani che vogliono cambiare le cose; e poi c’è il mondo rurale, che vive nella povertà e nell’ignoranza. La Serbia ha sei milioni di abitanti; di questi, 700 mila persone non hanno i denti, e non possono andare da un dentista perché non possono permetterselo. Anche per mandare il figlio all’asilo bisogna conoscere qualcuno». Questi, secondo Eccher e alcuni osservatori, sono gli elettori di Vučić: persone che si sono sentite disprezzate anche da molti partecipanti alle manifestazioni «perché partecipano a un evento elettorale del partito in cambio di un pranzo offerto dall’organizzazione. Il problema, di cui anche l’opposizione non si rende conto, è che anche con queste persone bisogna parlare. Uno che si vende per un sandwich non è per forza una persona meschina, è una persona che con quel panino ha risolto una giornata».
FIGURA 1: i salari nominale serbi crescono, ma i salari reali ristagnano (Fonte: FMI)
Vučić non è decisamente un uomo del popolo, considerando che nel 2016 solo i suoi beni immobili valevano oltre un milione di euro. Ha fatto sua, tuttavia, una narrativa comune tra i populisti europei (anche di casa nostra): il “mito degli underdog”. Il suo partito organizza per gli elettori gite a Belgrado con pranzo al sacco incluso, “lussi” che da soli non potrebbero mai permettersi, e in alcune occasioni hanno anche distribuito banconote da 20 euro: «con cui possono mangiare i successivi sette giorni. Vučić va lì, suda come loro d’estate, mangia prosciutto e beve rakija insieme ai suoi elettori. Le telecamere lo seguono mentre al telefono fa la scena di chiamare il ministro dell’Economia e ordinargli di trovare dei fondi per asfaltare una strada». Emblematica un’occasione, quando in pieno agosto il presidente fece visita a una serie di piccole città nella valle di Jadar, dove i cittadini protestano contro i progetti di apertura di una miniera di litio, controllata dalla multinazionale Rio Tinto. Il litio è uno dei tanti interessi, tra gli altri, dell’Unione Europea, che sull’ingresso della Serbia deve ancora decidere, con due capitoli chiusi su ventidue. Ebbene, quel giorno Vučić parlò con i cittadini di tutto: di strade da asfaltare, fognature da riparare… ma non delle miniere di litio.
È a queste persone che Vučić parla, anche quando sventola il fantasma di interferenze estere dietro le proteste. Secondo Fabrizio Coticchia, docente di Security and International Relations e consulente per il Ministero della Difesa che più volte ha visitato e studiato i Balcani: «solo il tempo ci potrà dire se è effettivamente così. A volte si tratta di un elemento cruciale, basti pensare alla retorica che si utilizza per le proteste in Ucraina, a volte è anche una carta utilizzata da chiunque per squalificare le proteste locali. Bisogna essere cauti».
Fuori da Belgrado
«Il problema della Serbia è anche un problema dei Balcani: un insieme di religioni che si tollerano, ma non si sopportano: un insieme di interessi geopolitici immenso; un insieme, nella società serba e non solo, di differenze di classe enormi. C’è il rischio che tutto questo, a un certo punto, esploda. Se fallisse questa anche questa protesta, io credo – commenta Eccher – che la maggior parte dei giovani emigrerà. Per cui, se non ci saranno guerre nei Balcani, è perché non ci sarà nessuno a combatterle». Una sfiducia che vede anche il giornalista italosloveno Stefano Lusa. «C’è un clima di sfiducia, una generale messa in discussione anche in Slovenia e in Croazia». Se infatti in Serbia gli studenti hanno portato la società civile in piazza, in Croazia si protesta per i prezzi esorbitanti nei supermercati, con veri e propri “scioperi di acquisto” che hanno coinvolto anche la catena della grande distribuzione Lidl. «I croati protestano perché una tavoletta di cioccolato può arrivare a costare anche 3 volte di più rispetto alla Slovenia. Inspiegabile, visto che è la stessa catena in entrambi i Paesi, e inaccettabile in un Paese dove i prezzi sono da tempo fuori controllo e i salari minimi sono tra i più bassi della regione». Soprattutto i più giovani, scoraggiati, sentono di lottare contro i mulini a vento. «I giovani hanno in tutta Europa preoccupazioni sul futuro e le prospettive che i loro Paesi possono offrire, anche qui in Slovenia e penso anche in Italia. Manca però – precisa Lusa – un movimento transnazionale dei ragazzi, una ridefinizione di Balcani che implichi rinnovamento trasversale. Ogni Paese, per ora, fa storia a sé». Ciò che hanno in comune le proteste balcaniche per ora «è la crisi di fiducia nella democrazia rappresentativa, che viene vista come un modo per non cambiare mai le cose».
Figura 2: prezzi al consumo in Croazia (Fonte: takeprofit.org)
A complicare il quadro, l’elezione alla Casa Bianca di Trump, che ha riacceso alcune questioni. Da una parte, il tycoon ha dichiarato che non appoggerà le proteste nelle piazze serbe e qualsiasi cosa dovesse venirne fuori. Dall’altra, i suoi piani su uno smembramento de facto dell’Ucraina costituiscono un pericoloso precedente. «Il pericolo – spiega Lusa – è che creino una questione simile qui, ad esempio per quel che riguarda la Repubblica Srpska. I serbi di Bosnia potrebbero iniziare a chiedersi, ‘se nel Donbass è possibile, perché non anche qui?’».
Un problema (anche) italiano
Coticchia, che questa repubblica dalle velleità autonomiste l’ha vista nel 2003, sottolinea come questi problemi siano anche causati da un conflitto più “congelato” che risolto. «L’Italia – spiega – qui ha un doppio ruolo, sia per le politiche di sicurezza con operazioni di polizia di contrasto alla criminalità organizzata, sia come controllo della situazione dopo gli accordi di Dayton. Uno scongelamento di questo conflitto, per cui ancora non si è trovata una soluzione politica, creerebbe ulteriore instabilità». Instabilità che preoccupa anche l’Europa, considerando il nostro interesse «legato al fatto che da una parte la Serbia è interessata al rapporto con l’UE, e dall’altra ha ottimi rapporti con Mosca».
«Ci sono due direttrici della politica di difesa italiana che sono interessate dall’instabilità nei Balcani – continua Coticchia – una è relativa all’impegno di nostre missioni nell’area, e l’altra fa riferimento al cosiddetto “Mediterraneo allargato” e alle sue politiche di sicurezza». Le prime missioni sono iniziate trent’anni fa, quando a partire dagli anni 90 «per l’Italia i Balcani sono stati un elemento centrale della politica estera di difesa, data l’instabilità che proveniva da essi. Basti pensare a quanto accaduto in Albania nel ‘91, o in Bosnia Erzegovina tra ‘92 e ‘93, e il ruolo dell’Italia nelle missioni militari internazionali, fino a quella europea Althea in Bosnia». Va ricordato che in Kosovo, dove le nuove elezioni parlamentari potrebbero creare attriti nei rapporti Pristina-Belgrado, noi italiani abbiamo diverse unità impegnate nella missione KFOR. Dopo un lungo “silenzio stampa”: «negli ultimi tempi i Balcani sono tornati al centro dell’attenzione, con il governo Meloni e diverse missioni congiunte di Difesa ed Esteri, anche purtroppo per minacce presunte come il “problema” dell’immigrazione». Conclude Coticchia: «un contesto stabile per noi vuol dire meno minacce e maggiori opportunità di sviluppo, visto che l’Italia ha molti interessi tra cooperazione nazionale e decentrata nei Balcani, dove enti locali italiani – in particolare Lombardia, Toscana e Puglia- hanno sviluppato partenariati che vanno oltre il gemellaggio».
L’ultima volta che i giornali definirono i Balcani “una polveriera”, era la vigilia di una Guerra Mondiale. Non resta che sperare che questa sia una guerra generazionale, da vincere nelle piazze.
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