Geopolitica
Cessa il fuoco (per ora) e menomale: ma il futuro e la pace non sono mai stati così lontani
La fragile tregua tra Israele e Hamas è ovviamente benvenuta quanto tardiva, ma rende ancora più chiara la distanza da una prospettiva di pace solida e duratura
Non è la fine della guerra, e non ci sarebbe nemmeno bisogno di precisarlo. L’accordo per il cessate il fuoco raggiunto tra Israele e Hamas, con la mediazione e la supervisione futura di USA, Qatar ed Egitto, congela – se tutto va bene – una tragedia lunga quasi 500 giorni, che sta nell’orizzonte di disgrazie ben più durature. Non ridà la vita a decine di migliaia di palestinesi uccisi nei raid israeliani, non restituisce la vita “di prima” agli ostaggi che saranno gradualmente liberati, nè la vita tout-court alle vittime israeliane del 7 Ottobre. Non darà un giusto processo a centinaia di palestinesi arrestati da Israele per mesi o magari anni e che saranno liberati, nè – di contro – non garantirà a Israele che alcuni tra questi, dopo lunga detenzione nelle mani del nemico, non saranno più motivati che mai a cercare vendetta seminando terrore. Non restituisce le loro case ridotte in briciole a centinaia di migliaia di palestinesi di Gaza, non ridà figli e genitori a chi li ha perduti, e non disegna nessuna realistica speranza di un futuro finalmente pacificato per palestinesi e israeliani. Le tempestiche stesse dell’accordo, spalmate su molti mesi e addirittura sui prossimi anni, sono quasi una garanzia di fallimento: come spiegato ad Avvenire da Gershon Bashkin con l’autorevolezza di chi conosce le parti in conflitto come forse nessuno al mondo. Basterà una provocazione, un errore, a riportare le truppe israelane nuovamente nel cuore di Gaza, come già preventivamente annunciato da Netanyahu.
La fragilità, la pochezza di questa (ovviamente) più che necessaria e benedetta pausa, nel conflitto, è tanto più chiara se confrontata con la vastità del problema, con la radice lunga di questa guerra cancrenosa, con ciò che sarebbe servito e ancora servirebbe per non trovarsi sempre al bordo di una nuova esplosione, di nuovo sangue versato a irrorare il già florido campo nel quale cresce la pianta del risentimento e della voglia di vendetta, il vero sempreverde di quella guerra e di quella terra. A servire, non da oggi, sono componenti sociali numerose fino alla maggioranza, sia tra gli israeliani sia tra i palestinesi, disponibili a riconoscere che il diritto degli altri di stare su quella terra esiste. Non sto parlando, non qui, delle formule politico-istituzionali – due popoli per due stati, stato binazionale, e così via – tutte logorate dal tempo, ma prima di tutto, avanti a tutto, dell’idea umana che l’altro popolo lì può starci, anche se – da ciascun punto di vista opposto – alcuni suoi figli hanno fatto molto male a noi e ai nostri. Che alcuni pezzi della storia dell’altro sono ostili all’umanità e alla vita della propria parte, ma questo non toglie il pieno diritto a essere parte, appunto, di una divisione di una coabitazione. È una prospettiva radicalissima, nella sua banalità, è su di essa – più o meno consapevolmente – che in ogni posto, nel mondo, si sono costruiti i percorsi di pacificazione dopo le guerre e le guerre civili. Servono leadership educate alla politica del compromesso, alla guida di popoli pronti ad accettare la rinuncia di una parte di quel che riterrebbero loro diritto, per un bene più piccolo ma pacificato e duraturo.
Niente è più lontano di questo, dalla realtà israeliana e palestinese di oggi. Con Israele sbilanciatissimo, nella società e solo di conseguenza nei palazzi della politica, alle estremità dello spettro della destra mondiale, e in un tempo in cui le destre invero non hanno paura di mostrarsi vicine al prototipo originale in tutto il mondo. Con una società convinta che alla guerra non ci sia alternativa alcuna, perchè il mondo tutto odia Israele, e ogni critica finisce nello stesso innominabile calderone. Dall’altra parte, con una società palestinese radicalizzatasi in risposta all’inettitudine dei leader storici dell’OLP, e all’ottusità di un’Israele a sua volta sempre più guidato dal millenarismo fanatico dei nazionl-religiosi, non a caso assassini di Rabin e del processo di pace sepolto assieme al Novecento, che ritiene il proprio diritto alla terra fondato non sul diritto ma sulla Bibbia, e cioè – in definitiva – sul sopruso e la violazione del diritto dell’altro.
Potremmo continuare a lungo, e molti, a seconda dell’empatia che prevale in loro, leggeranno in queste parole mancanze di comprensione della causa palestinese, o di quella sionista. Quel che invece non è discutibile, purtroppo, è che la tregua fragile di oggi è molte cose, ma non il primo tempo della pace di domani. Dobbiamo accontentarci della fine temporanea della carneficina, esultare per qualche innocente liberato e restituito alla sua vita. È questo, del resto, il destino di mondo che ha smesso di pensare che il futuro è possibile. È vero laggiù, come quassù. A fare la differenza è solo la fortuna di essere nati quassù, e non laggiù.
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