
Partiti e politici
Per male che faccia e per brutto che sia, Trump ci ricorda che la politica serve a decidere cose importanti
I dazi di Trump spaventano il mondo. Eppure il presidente americano qualcosa ci insegna: le sue scelte non ci piacciono, ma ci ricorda che la politica o decide, o non è.
I dazi di Donald Trump hanno acceso la miccia di una guerra commerciale e dato il via a una tempesta che sui mercati finanziari ha bruciato centinaia di miliardi in pochi giorni. Questo è quel che è successo, ed è sotto gli occhi sanguinanti del mondo. Cosa succederà, da adesso in poi, nessuno davvero lo sa. La Cina sembra pronta a una ritorsione diretta e immediata; l’Europa e il resto del mondo paiono più disponibili ad aprire una trattativa. Si vedrà. Anche sapendo esattamente cosa faranno gli attori in campo, e nessuno lo sa, è impossibile immaginare con precisione le conseguenze di medio e lungo periodo. Non sapendolo, ed è questo il caso, la nebbia è fitta e impenetrabile. Cosa c’è dopo questa svolta, davvero non lo sa nessuno, perché la variabile inserita è enorme, e ci dimostra una volta di più che, proprio nell’epoca storica che più dispone di dati e meglio crede(va) di padroneggiarli, l’imprevisto è vivo, può essere grande come una pandemia o come una guerra, ed arriva in fretta in ogni angolo di mondo.
Perché ha fatto quel che ha fatto?
La cosa più semplice, più comune, in questi casi, è buttarla in psicologia, o in psichiatria da bar. “È pazzo”. È un “pazzo” circondato e consigliato da persone che non hanno capito che era pazzo davvero, da servi sciocchi, da qualcuno che ha molto da guadagnarci sulla pelle dei tantissimi, che ben al di là dei confini del grande paese di cui è presidente, hanno tutto o quasi da perdere. Con un personaggio come Trump gli schizzi di sapore psicanalitico si son sprecati fin da subito, e mano a mano che le scelte estreme fanno seguito alle dichiarazioni, la tentazione di metterla principalmente sul piano personale si fa più forte, quasi insopprimibile. Un presidente di destra, sostenuto e celebrato come l’eroe di Wall Street e del capitalismo finanziario più sfacciato e aggressivo, che ha costruito una squadra di governo piena di mega imprenditori e finanzieri di grido, tutti con patrimoni a nove zeri, che sceglie – in nome della reindustrializzazione degli Stati Uniti – una manovra protezionistica aggressiva ed estrema. Una di quelle decisioni che, da manuale, produce uno shock immediato sulla circolazione di capitali e può generare inflazione, recessione e crisi sui mercati. Il conto incalcolabile possono pagarlo tutti, ma nel breve periodo di sicuro le botte più evidenti le prendono i grandi gestori di patrimoni “amici” di Trump. Non solo loro, certo, ma anche milioni e milioni di risparmiatori statunitensi e non solo. Si dirà, poi, che quando si hanno i miliardi non è un gran problema perdere qualche milione, anche nell’ordine delle decine, ed è sicuramente vero. E tuttavia, fa una certa impressione vedere la Wall Street che tifava Trump colpita così nettamente nella sua ragione d’essere principale, cioè il mantenimento e l’accrescimento dei patrimoni. E allo scopo – realistico per pochi, folle per molti analisti – di riportare lavoro e piena occupazione negli USA: al fine, cioè, di ridare fiato alle classi meno agiate. Si dirà: chissà se riesce, chissà se è vero, chissà, chissà, chissà. Dubbi legittimi e anche doverosi. Resta però che al primo atto rilevante da presidente Trump fa perdere soldi a Wall Street dichiarando che è un sacrificio utile per il futuro dei lavoratori del suo paese.
Una politica che decide
È un approccio nazionalista, semplicista, spiegato con formule matematiche completamente sballate, tanto spannometrico da sembrare perfino finto. E dove cadrà la palla davvero – ripetiamolo – lo capiremo tra un po’. Ma al di là della propaganda di Trump e del panico che ha scatenato, fa impressione la traduzione in fatto di quanto aveva annunciato e promesso. Un meccanismo – a una promessa di un politico consegue un’azione coerente – al quale non siamo sinceramente più abituati. La promessa sembrava tanto assurda che anche tra i suoi estimatori e probabilmente anche tra i suoi collaboratori molti non credevano l’avrebbe mantenuta, e sicuramente non integralmente. E invece, firmati gli ordini esecutivi, non ci sono più dubbi sul fatto che sia successo davvero. Al di là della direzione politica della decisione, e della possibilità che sia parte di una tattica negoziale, quello che fa impressione e obbliga a riflettere è il fatto che sia stato Trump, proprio lui, l’emblema di una politica fatta su base personale e umorale, lungo assi di pensiero che portano dritti dalle parti del nazionalismo reazionario, classista e razzista, a pensare – coi fatti, prima che con le parole – che la politica abbia ancora una supremazia sull’economia e sulle regole del solo libero scambio. Non è una difesa del merito di questa decisione, ma un’osservazione neutrale: dopo decenni nei quali i leader di tutto il mondo, soprattutto del mondo progressista, hanno recitato la parte di chi doveva obbedire al mantra del TINA (“there is no alternative”), Trump agisce gridando che un altro mondo è possibile. Forse sarà un mondo terribile e queste decisioni mostreranno presto degli effetti nefasti, ma il suo colpo di mano dice che agire in maniera decisa nei confronti degli equilibri esistenti è possibile.
La tattica ha mangiato la politica
Tra le obiezioni sensate a questo ragionamento, la più forte riguarda il tipo di potere esercitato dal presidente americano, nonché la sua dimensione. Il presidente USA ha davvero potere, un potere diretto, frutto della Costituzione statunitense, e il problema semmai sarà vedere se e come funzionano i contropoteri, questa volta. Può decidere, agire, mica come qua da noi che, ossessionati da passati totalitari, abbiamo limato, limitato, circoscritto fino alla paralisi. E tuttavia, uno sguardo sincero a quel che succede a casa nostra, in Italia e in Europa, non può non far pensare che il limite della capacità decisionale, all’interno delle nostre istituzioni, non dipenda solo dalla distribuzione dei poteri, dai contrappesi e dai diversi interessi rappresentati, ma anche – ormai – da una disabitudine a prendersi la responsabilità di decidere. La briga di essere divisivi. È vero, lo schema di Trump è così decisionista da sembrare perfino irresponsabile. Eppure, non sembrano tanto più in salute democrazie nelle quali il dibattito politico è monopolizzato dalle piazze nelle quali le opposizioni si alternano, cercando di tenere i piedi in due scarpe, e magari rimpiangendo di non avere un piede in più, che sarebbe utile per calzarne una terza. E non è un bello spettacolo vedere che chi governa non sa dire esattamente da che parte starà, in questa ipotesi di trattativa, tra l’America trumpiana e un’Europa che a sua volta ipotizza, contesta, questiona, ma non ha mai saputo darsi una voce sola sulle cose che contano nel mondo.
Insomma, questo bruttissimo Trump ci ricorda qualcosa di vero: la politica o è protagonista delle scelte che ha la forza di intestarsi, oppure non è. Poi, certo, che Dio ce la mandi buona.
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