Giornalismo

Peduzzi (Il Foglio): come il sequestro di Cecilia Sala ha cambiato la mia idea di giornalismo

18 Febbraio 2025

Il suo sogno era addestrare i delfini, ma la sua curiosità e la sua voglia di conoscere il mondo la portano a iscriversi alla Scuola di giornalismo, dopo un anno sabbatico trascorso fra il Sea World di San Diego e l’ambasciata italiana nella sede dell’UNESCO a Parigi. Paola Peduzzi, esperta di politica estera, grande studiosa e attenta ricercatrice di dettagli e fonti, scrive di geopolitica su Il Foglio, nella rubrica Cosmopolitics. La incontro a Milano pochi giorni dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca e la liberazione di Cecilia Sala. Parliamo della condizione dell’Europa oggi e di come abbia vissuto lei, personalmente e professionalmente i giorni di prigionia dell’amica, oltre che collega.

Questa è solo un’anticipazione di un’intervista integrale che sarà pubblicata nella seconda metà del 2025, in un libro intitolato “Giornaliste Italiane” un progetto nato con l’editore Luca Sossella e che comprende già un primo volume “Giornalisti Italiani” attualmente in libreria. L’idea è quella di proseguire il viaggio, iniziato con i giornalisti, attraverso la storia del giornalismo italiano e del nostro Paese, dagli anni ’70 ad oggi. Come già successo per le interviste ai giornalisti, anche per questo secondo volume, alcune parti delle interviste alle giornaliste, soprattutto quelle che riguardano argomenti di attualità, saranno pubblicate in anteprima su Gli Stati Generali.

Con quali strumenti si può combattere l’ascesa delle fake news, soprattutto in un tipo di informazione che predilige la velocità alla profondità della notizia?

Io sono contraria alla velocità e infatti anche in redazione, quando c’è l’urgenza di una notizia da pubblicare sul sito, sono sempre riluttante, perché credo che il sito del Foglio, debba avere il ritmo del quotidiano, che cerca di dare una spiegazione e un’analisi a una notizia. La breaking news si trova ovunque, io vorrei decifrarla, collocarla nella realtà in cui accade, ma per farlo ho bisogno di tempo. Il ritmo non può combaciare alla perfezione, perché i siti vanno per loro natura più rapidi: da parte mia cerco di non essere un bradipo, però penso che più che lanciare una notizia sia importante fornire gli strumenti per comprenderla.

Il Foglio in questo è stato un pioniere, perché nasce a metà degli anni Novanta con il motto “voi ci date le notizie, noi vi diamo le idee”: era senza immagini e con un andamento lento, credo che siamo stati anche fra gli ultimi a creare un sito che non riproponesse soltanto gli stessi articoli pubblicati sul cartaceo, proprio perché da sempre prediligiamo l’approfondimento. Credo che questo sia il giusto approccio per combattere le fake news: quando si va di fretta si sbaglia, basta vedere come sono le “live” per esempio degli attentati: ci sono molti errori, molte speculazioni, vuoi essere esaustivo e finisci per essere fuorviante. Anche noi facciamo delle live, e io sono sempre terrorizzata prima di cominciare, perché non è un metodo di lavoro che si attaglia a come noi ci muoviamo solitamente, ma anche in quelle occasioni siamo riusciti a dare la nostra impronta, perché non ci limitiamo a dare la notizia ma cerchiamo comunque di dare una spiegazione e preparare un approfondimento, a costo di arrivare 5 minuti dopo, ma corretti.

Quanto una cattiva informazione influisce sulla democrazia?

Tantissimo e a volte temo in maniera irreparabile. Questa nuova informazione, in formati ridotti e talvolta superficiali, perché si pensa che i lettori non siano più capaci di leggere cose lunghe essendo perennemente distratti, sta creando un nuovo genere di giornalismo, che considero un po’ truffaldino. Quando io racconto qualcosa, mi piace anche che dal mio racconto, dalla mia analisi, il lettore non solo apprenda una notizia, ma ne possa trarre degli spunti di riflessione, degli strumenti per crearsi la sua opinione. Il grande insegnamento di Giuliano è stato non tanto convincerci a pensarla come lui, quanto ad allenare la nostra testa per formarci la nostra opinione: vale lo stesso per i lettori, che cerchiamo sempre di trattare come adulti. Il giornalismo che dà sentenze, spiegazioni assolute, che non è mai problematico e che è considerato il modo per parlare ai lettori più giovani che vivono on-demand e non sanno aspettare, mi sembra che appiattisca il dibattito pubblico, trasformandoci tutti in tifoserie.

L’informazione invece, soprattutto per tenere vivo il confronto che è fatto di idee diverse, di dissenso, senza il quale saremmo in una dittatura, deve essere un po’ più problematica e sfumata: il giornalista non è un guru. Leggevo di recente Tina Brown, una che a 29 anni dirigeva Vanity Fair e che ora ci ha fatto il piacere immenso di scrivere una newsletter su Substack, la versione di oggi dei suoi imperdibili “diari” e diceva in mezzo a molte meraviglie: “Dobbiamo distinguere tra quel che è il giornalismo e quel che è ‘un contenuto’. Per molti sono concetti fusi insieme, ma i content providers si definiscono giornalisti ma non lo sono: non fanno ricerche, non fanno domande, di fatto è uno scambio di accessi con gli intervistati”.

Riprendendo il sottotitolo del tuo podcast “EuPorn”, che fase sta attraversando oggi, in amore, l’Europa?

L’Europa vive spesso in crisi, credo anzi che proprio le difficoltà di questo enorme matrimonio siano il motore che lo tengono in piedi. Ora c’è pure il ritorno di Trump, e come sempre gli europei non si erano preparati. Però questo matrimonio sa anche trasformarsi, rilanciarsi, penso alla linfa che arriva dall’Europa dell’est e dall’Europa del nord, pur con qualche inciampo: spero che questa vivacità democratica abbia il sopravvento anche nel resto d’Europa.

Dopo la Brexit, la Germania di AfD parla di Dexit, è la fine del sogno unitario dell’Europa?

Secondo me il grande esito della Brexit è stato proprio quello di disincentivare a uscire dall’Unione Europea, perché se non è andata bene a un paese che non aveva neanche l’euro e non aveva una serie di vincoli che tengono insieme il resto dell’Europa, non oso immaginare cosa possa significare uscire dall’Europa, per un paese come la Germania. Credo si tratti di pura campagna elettorale, penso che non convenga a nessuno rimanere da soli, ancor meno adesso che si stanno ricostituendo dei blocchi e delle sfere di influenza molto forti. Per l’Europa questo è davvero il momento di giocare da superpotenza e non da sorella minore di qualcun altro.

E quale ruolo giocheranno Trump e Musk in Europa?

Musk mi sembra orientato a fare campagna elettorale permanente, a sostegno di tutti i governi non di sinistra, mi sembra che il filo conduttore dei suoi endorsement nei paesi europei sia la lotta alla sinistra ancor più che il sostegno a partiti estremisti; si vede molto bene in Inghilterra, la virulenza contro il Governo Starmer, che ha il difetto di essere di sinistra. Il ruolo di Musk, nel primo mandato trumpiano, ce l’aveva Steve Bannon, che infatti ha già preso a litigare con Musk, vedremo cosa succede: la filosofa ungherese Agnes Heller diceva a proposito dei sovranisti che finiranno tutti per prendersi a calci nel sedere tra di loro.

Spero che l’atteggiamento di Trump – ti devi conquistare il fatto di essere un suo alleato ma i metodi per farlo non sono ancora del tutto chiari e non sono nemmeno del tutto democratici – ecco spero che questo processo porti l’Europa a essere molto più forte e autonoma e che inizi a pensare internamente a sicurezza e difesa.

Nel tuo articolo dell’11 gennaio e durante la tua partecipazione al podcast “Amici e Nemici” hai raccontato del lavoro che Il Foglio ha fatto durante la prigionia di Cecilia Sala, grazie al sostegno dato da due giornali esteri. Ora che puoi “riprendere fiato” cosa ti porti dietro di questa esperienza sia a livello professionale sia a livello personale?

È stata un’esperienza difficile e angosciante sia della mia vita professionale sia dal punto di vista umano, visto che lavoro molto insieme a Cecilia.  Ho saputo fin da subito del suo arresto, ma la notizia è diventata pubblica una settimana dopo, e quel momento è stato il più sconvolgente, ho pensato che avrei dovuto – avremmo dovuto tutti al Foglio – dotarci di una strategia. E come mi capita spesso, quando c’è qualcosa che non conosco o non capisco, vado a chiedere aiuto all’estero. Così sono andata a bussare alla porta del Wall Street Journal, che ha avuto un suo giornalista, Evan Gershkovich, per 16 mesi in una prigione moscovita, una storia finita con il più grande scambio di prigionieri della storia moderna, e ho bussato al Washington Post dove c’è Jason Rezaian che è stato a Evin, lo stesso carcere di Cecilia a Teheran, 544 giorni. Andare a cercare aiuto all’estero mi ha salvata dal dibattito italiano, che non sempre è stato virtuoso, diciamo, e che mi ha delusa con una frequenza che non avevo mai sperimentato prima. Noi maneggiavamo molte informazioni riservate, e se sai che alcune cose non vanno raccontate in quel momento, quando poi le ritrovi su altri giornali, sai perfettamente quale sgarbo c’è dietro e anche quanto possa essere pericoloso per la persona che in quel momento è rinchiusa in un carcere iraniano, una dittatura che pratica l’impiccagione. Non ho mai pensato che Cecilia potesse essere impiccata, ma che rimanesse a Evin per molto tempo, questo sì. Contattando giornali esteri mi sono tenuta lontana da questi dibattiti e ho incontrato persone meravigliose, che mi hanno insegnato a fare un giornale raccontando qualcosa che ci riguardava, avendo un dovere sia nei confronti di Cecilia sia dei nostri lettori. Mi hanno dato alcune regole: non farti mai mancare il fiato, questa è una maratona ma non sai per quanti chilometri dovrai correre. Poi mi hanno detto di costruire “un muro” in redazione, tra chi si occupava delle notizie e chi della campagna di liberazione di Cecilia. Questa cosa del muro è stata faticosissima, ma anche a tratti divertente: quando mi sono confrontata con il Wall Street Journal, mi hanno detto come lo avevano costruito questo muro, ma citavano cose impossibili per me, come coinvolgere l’ufficio marketing, gli avvocati, una struttura che noi non abbiamo. Siamo in pochissimi, ho risposto, cosa faccio, dovrei farmelo nella mia testa, ‘sto muro. Poi mi hanno dato molto coraggio: fai rumore, non avere paura, grida forte che Cecilia è detenuta ingiustamente, non avere paura. Umanamente e professionalmente ho imparato tantissime cose, mi hanno rassicurato su quello che stavo facendo, hanno creato una rete di protezione personale e professionale unica. Quando Cecilia è stata liberata, io ho avvisato tutti con un messaggio: “She is free” e tutti mi hanno risposto: “Da questo momento in poi siamo qui per lei”. Non era vero: sono rimasti anche per me. Questa esperienza mi ha cambiata tanto, ha cambiato il mio modo di pensare il lavoro, di pensare agli altri giornalisti, di avere cura delle persone, che poi è la cosa che mi interessa di più.  Sono uscita dalla prigionia di Cecilia con un’idea nuova di fare questo mestiere.

 

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