Diritti

Non capisco un cazzo, ma commento

6 Marzo 2025

I social e l’arte di dire sciocchezze con sicurezza (senza dimenticare Vannacci)

L’Italia è il Paese in cui tutti sanno tutto su tutto, ma nessuno approfondisce nulla. La cultura è un orpello, il dubbio è sinonimo di debolezza, e il solo imperativo categorico rimasto è: commentare. Sempre, ovunque, comunque. Non importa che il tema sia complesso, che richieda competenze specifiche o anche solo un minimo di letture preliminari. L’essenziale è esserci, con la convinzione di un esperto e la preparazione di un citofono.

Viviamo l’epoca dell’ignoranza ostentata: non un vuoto di conoscenze, ma la scelta deliberata di ignorarle. Un tempo chi non sapeva taceva per pudore. Oggi, il silenzio è peccato mortale. Se non hai un’opinione, non esisti. Ma attenzione: essere informati è noioso, ragionare è superfluo. L’unica strategia vincente è spararla grossa con assoluta sicurezza.

E così, il nostro tempo è popolato da eroi dell’inconsistenza: sconosciuti che diventano icone di massa grazie a un’uscita infelice, un libro improvvisato, una cazzata ben piazzata. Prendiamo il caso del Generale Vannacci: fino a ieri, perfetto estraneo. Poi ha scritto un libro zeppo di “opinioni opinabili” e, in un istante, si è trovato al centro del dibattito nazionale. Un libro autoprodotto, senza editore di rilievo, con una qualità di scrittura discutibile. Eppure, onnipresente. Perché? Perché il mainstream ha colto la scintilla e l’ha trasformata in un incendio. Un pamphlet da bancarella che, ignorato, sarebbe rimasto una curiosità tra gli scarti editoriali, oggi è diventato un passepartout per la politica.

Ma Vannacci è solo un esempio. I social hanno stabilito la regola aurea: più una dichiarazione è assurda, più genera interazioni. Un’affermazione palesemente falsa, ma detta con fermezza, funziona meglio di un’argomentazione solida. È il motivo per cui i terrapiattisti hanno più seguito degli astrofisici e le fake news viaggiano sei volte più veloci della verità. Non conta che sia vero, conta che faccia discutere.

L’ignoranza non è più un limite, ma un’opportunità. Anzi, una strategia. Chi padroneggia i meccanismi dell’indignazione algoritmica sa che basta una frase eclatante per scatenare il putiferio. Il problema non è il contenuto, ma il rumore che genera. E il rumore è moneta sonante.

Nel frattempo, il concetto stesso di verità si è liquefatto, sostituito dalla sua versione più redditizia: la visibilità. Teorie del complotto, revisionismi da bar, letture della storia da TSO: tutto vale, purché faccia numeri. L’unico vero crimine oggi è l’invisibilità.

Forse dovremmo chiederlo a Umberto Eco, che nel 2015 disse:
“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel.”

Solo che oggi, più che un diritto, è un obbligo.

 

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