Italia
Lavorare senza lavorare l’utopia (amara) del XXI secolo
Tra licenziamenti illegittimi, reintegri forzati e inattività forzata, il nostro protagonista incarna l’utopia del lavoro moderno: retribuito senza impegno, produttivo nel vuoto.
Tra licenziamenti illegittimi, reintegri forzati e inattività obbligata, il nostro protagonista incarna l’utopia del lavoro moderno. retribuito senza impegno, produttivo nel vuoto.
Nel terzo millennio, tra algoritmi onniscienti e intelligenze artificiali che minacciano di sostituire l’essere umano perfino nel portare il caffè al capo, c’è ancora chi viene messo in panchina. Non per demeriti, ma per un sottile gioco di vendette aziendali. Un bancario è stato licenziato due volte, nel 2011 e nel 2018, dallo stesso istituto di credito. Entrambe le volte, i giudici hanno stabilito che fosse illegittimo. E quindi? Reintegro. Non una, ma due volte. Con sentenza inappellabile, la banca si è vista costretta a riammetterlo in servizio.
Ma se c’è una cosa che certe aziende sanno fare bene è la vendetta postuma, quella che non si scrive nei contratti ma si incide nella quotidianità. Così, il bancario, che prima aveva un ruolo di prestigio tra i quadri, si è ritrovato incollato a una scrivania vuota. Nessun incarico, nessuna responsabilità, nessun foglio da firmare. Anzi, nulla da fare. Per mesi ha trascorso le giornate guardando lo schermo del computer acceso solo per illuminare il vuoto. Nel frattempo, il tribunale gli ha riconosciuto 500 mila euro di risarcimento per il demansionamento e il danno professionale.
Sembra una storia moderna, eppure il sapore è antico. Negli anni ’50, la FIAT aveva inventato l’Officina Sussidiaria Ricambi, una fabbrica nella periferia torinese dove gli operai dissidenti venivano esiliati come eretici industriali. Lì, tra macchinari arrugginiti e reparti che sembravano usciti da un film post-apocalittico, si sperimentava una nuova forma di tortura. l’inattività forzata. Il messaggio era chiaro: vuoi lavorare? Non puoi. Ti paghiamo per marcire lì, a sentire il tempo scivolare tra le dita senza poterlo afferrare. Un monito per gli altri, un inferno per i prescelti.
Oggi il mondo del lavoro ha raffinato il meccanismo, ma non certo migliorato la sostanza. Secondo il Rapporto Censis-Eudaimon, un lavoratore dipendente su tre è in burnout. Il 76,8% non riesce a bilanciare vita privata e lavoro, il 73,9% sente una pressione insopportabile, il 36,7% è finito da uno psicologo per il proprio impiego. Il mantra della produttività si è trasformato in una maratona che non finisce mai, dove il premio non è il traguardo, ma la sopravvivenza.
E così, in mezzo a tutto questo, il nostro bancario silenzioso, risarcito e recluso, emerge come il vero sogno del nuovo millennio. Lavorare senza lavorare. Essere pagati per esistere. Il paradiso della burocrazia, il nirvana della mansione inutile. Ma è davvero un’utopia? O forse è solo l’ultimo stadio del lavoro contemporaneo, un eterno standby, né vivo né morto, prigioniero di un tempo che non scorre e di un ruolo che non esiste?
Forse, alla fine, il suo è solo un destino più evidente del nostro. Perché lui è pagato per restare immobile. Noi, per correre a vuoto.
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