Letteratura

La crisi della narrazione, è una notizia un tantino esagerata

Byung-Chul Han scrittore sud coreano di lingua tedesca ci ammolla una geremiade sulla fine della narrazione.

19 Marzo 2025

Byung-Chul Han – La crisi della narrazione – Einaudi 2024

In “La crisi della narrazione”, Byung-Chul Han analizza come nella società contemporanea le narrazioni tradizionali, che un tempo davano senso e coesione alle comunità, siano state sostituite da una sovrabbondanza di informazioni frammentarie e effimere. Questo passaggio ha portato a una perdita di profondità e significato nelle nostre vite. Ecco in estrema sintesi il succo di questo pamphlet sintetitazzato da IA.

Seguono i miei appunti di lettura presi direttamente sullo smartphone, aggeggio malefico, cui Han indirizza non pochi malumori come vedremo.

Quando si legge: «Un racconto, come un sillogismo, è una forma che giunge a una conclusione [Schlussform] che dà forma a un ordine chiuso e offre senso e identità», o anche «con le narrazioni il nostro essere-nel-mondo è stato un essere-a-casa», è facile pensare che forse tutto ciò si addice a “Torna a casa Lassie” o al “Conte di Montecristo” perché nell'”Educazione sentimentale” o nelle “Affinità elettive” e in tanti intrecci di rivelazione — in cui peraltro la storia viene elisa o elusa —, avviene tutto il contrario: alla fine della storia, che pur scarnificata c’è — perché senza un minimo di storia non si dà narrazione — un senso di sublime vuoto, di sperdimento, ci sommerge chiudendo quei libri: la vita infatti non vi si chiude, non approda ad alcuna conclusione e apre mille interrogativi. Altro che tornare a casa. Si gira in tondo, ahimè, caro il nostro pop-filosofo. Non si percepisce infatti quale modello di narrazione egli insegua e che la narratologia ha ormai — dai tempi di Vladmir Propp quasi cent’anni fa (1928) — indagato e classificato.

* Quali narrazioni infatti? è tipico del linguaggio apodittico-orfico come questo restare sul generico esigente, altrimenti la filippica o la geremiade non potrebbero darsi. Quando e come le narrazioni avrebbero «perduto la loro forza di radicarci nel mondo» (posto che sia stata questa la loro mission per dirla con il linguaggio delle slide)? Perché, infatti, non era la sua indicazione anche quella di distoglierci dal nostro e prospettarcene un altro — come accade al sublime Hidalgo o alla “petite femme” Bovary ?

* Ovviamente c’è la stanca lamentela, da deprecatio temporum, contro gli «schermi digitali, che isolano gli esseri umani facendone dei consumatori. I consumatori sono solitari. Non danno forma ad alcuna comunità. Le stesse Storie condivise sulle piattaforme social non sono in grado di rimuovere il vuoto narrativo.» O anche: «La perdita di empatia che caratterizza l’era degli smartphone è un chiaro segno che lo smartphone non è un medium narrativo».

Oh Signur Signur!, mai ricordare invece il carattere liberatorio e l’effetto gentilizio che quegli schermi ti sortiscono, allorché dopo veloce prestidigitazione ti scaricano a prezzi irrisori in ebook il tout Balzac o ti collegano a superbi archivi yankee da cui saccheggiare opere rare e fuori mercato di e su autori centrali di ogni Anima Letteraria Mondiale o che, sulle deprecate piattaforme dei social si forma, oltre la rissa e il cazzeggio, anche una tranquilla comunità di lettori (dai tempi dei Newsgroup oltre 25 anni fa quantomeno) che con intelligenza, sensibilità e garbo riesce a scambiarsi informazioni ed emozioni letterarie, e si formano comunità che i letteratuzzi italiani (tutti maschi e provincialotti) delle “Giubbe Rosse” nella Firenze degli anni Trenta neanche si sognavano, visto che si rapportavano in povere fiaschetterie — previa misurazione dei rispettivi piselli letterari e reciproco e immancabile scambio delle loro operine —, secondo il motto: «E Sinisgalli incontrò Vigorelli e vinti dall’emozione si scambiarono la prefazione»? Naaaa, mai spendere una parolina benevola sull’innominabile attuale tecnologico, meglio il broncio perenne. Siamo alla fine della narrazioneeee, alla fine del mondoooo, “paga” di più.

* «Storytelling ist Storyselling» si legge, raccontare storie significa venderle.
Non molto chiaro appare il concetto di storytelling presso Han, ampiamente divisato invece dalla pubblicistica di settore già dal 2008 grazie al libro di Christian Salmon (“Storytelling. La fabbrica delle storie”, Fazi). Su queste analisi pionieristiche sull’abuso delle narrazioni a scopo manipolatorio convergono sia Peter Brooks che Jonathan Gottschall.

Come inizialmente formulato da Han sembrerebbe che OGNI storia sia storytelling e sia destinata proditoriamente alla vendita e all’esecrato consumo. E con cio? Lo storytelling “brutto” invece è una precisa pratica manipolatoria tipica del marketing imprenditoriale che si applica ai più diversi ambiti della comunicazione. Qui l’arte della narrazione, che fin dalle origini racconta, prefigura o interpreta l’esperienza dell’umanità, è diventata, grazie allo storytelling (o narrazione costruita ad arte), lo strumento della narrazione manipolata. Dietro di essa si nascondono i tecnici specializzati dello storytelling. Perché, insomma, una cosa è il racconto che esala dalla realtà, un’altra è il racconto che precede la realtà, che la vuole determinare, indirizzare e condizionare. E questo è nella letteratura specifica lo STORYTELLING, che il nostro Han riprende nei giusti termini — dopo un’erranza saggistica elicoidale su svariati temi spuri ma collegati al tema “morte della narrazione” con nessi molto labili — solo alla fine del saggio con queste parole: «Ma, soprattutto, lo storytelling viene impiegato nel marketing, dove ha la funzione di trasformare cose prive di valore in beni preziosi. I modelli narrativi diventano decisivi quando il valore aggiunto di un acquisto risiede, per il consumatore, in uno specifico vissuto.» Sono questi esattamente i termini di Salmon citato sopra (2008), Peter Brooks (“Stories Abounding The World Overtaken by Narrative”, 2022) e Jonathan Gottschall “The Story Paradox: How Our Love of Storytelling Builds Societies and Tears them Down”, 2021, non citati nel testo però.

* Indi Han saccheggia e chiosa il noto saggio di Benjamin sulla narrazione in Leskov e la preannunciata e imminente fine della narrazione dovuta all’eccesso di informazioni circolanti nell’infosfera (questo termine allora non c’era, ma il concetto sì). Il saggio di Benjamin è del 1936. Nell’edizione curata e annotata da Baricco (“Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov”, 2010) in mio possesso nell’esecrato smartphone questa notizia della fine imminente della narrazione è commentata così da Baricco: «L’arte del narrare volge al tramonto, dice [Benjamin]. Neanche si attarda a dimostrarlo: per lui è un dato di fatto, indiscutibile. La prova che porta a sostegno francamente è ridicola, piú che altro serve a capire che portare prove a sostegno proprio non gli interessava. […] Sono passati poco piú di 80 anni e noi possiamo dire con altrettanta sicurezza il contrario: l’arte di raccontare non è affatto tramontata. Ci troviamo immersi in un mondo che ne fa larghissimo uso, anche in campi che in teoria non le spetterebbero affatto (la politica e il marketing, ad esempio). Tecnicamente parlando è diventata una disciplina sofisticatissima.» [Da alcune testimonianze in rete si apprende che il grosso del fatturato della Holden si fa con lo storytelling di cui sopra. Non so dire se già ai tempi di Baricco o dopo che egli ha venduto alla Feltrinelli].

* Siamo sommersi dalle informazioni, dice Han. «All’interno del mare di informazioni e di dati andiamo alla ricerca di un ancoraggio narrativo», scrive. Corre l’obbligo aggiungere, per confortare Han, che ormai anche le informazioni vengono date in forma narrativa. È la mania del “new journalism” segnalata già da Gottschall in “L’istinto del narrare”. Si tratta di «uno stile anticonvenzionale di giornalismo basato sul raccontare storie vere utilizzando tecniche tipiche della narrativa.» Come in questo esempio preso dal CdS: «La mattina del marzo 1944 il dottor Orazio Pacella arrivò alla Galleria delle Armi. «C’era un silenzio irreale, la neve e tutti quei poveretti. Mostrai ai ferrovieri e ai contadini come si fa la respirazione bocca a bocca.» Con questo incipit chiaramente di tipo narrativo — e non è una gran cosa, va detto — la giornalista Dora Farina intendeva rievocare la tragedia ferroviaria di Balvano che nel 1944 procurò oltre 600 morti. Una informazione ossia.

* Passi come questo di Han: «La digitalizzazione intensifica l’atrofia del tempo. La realtà decade a informazione, la cui estensione temporale consiste in un’attualità sempre piú puntuale» sono una stanca tiritera di finissimo pessimismo filosofico. Si tiri su Han e dia uno sguardo ad “Archive.org”, il Tempio della digitalizzazione. Per me il regno di Bengodi. Angosciante? Solo perché non basta il tempo umano per saccheggiarlo, non la voglia.

* Tutto cade sotto la mannaia pessimista e alto-filosofica di Han, oltre la digitalizzazione di cui sopra: i post e i reel di Facebook o Instagram, e anche i selfie: durano un istante e «non sono nient’altro che fugaci informazioni visive.» Non hanno durata e non si organizzano in racconto.

Cade una infinita tristezza in fondo al cuore del Nostro. Tutto è precario, tutto è caduco: mi aspetto da un momento all’altro un moto di rimpianto elegiaco per la caduta delle foglie o dei capelli.

* Deprecatio temporum 1. «Con le piattaforme digitali come Twitter, Facebook, Instagram, TikTok o Snapchat, ci troviamo al cospetto del grado zero della prassi narrativa.»

Deprecatio temporum 2.«La crisi esistenziale della modernità, in quanto crisi della narrazione, dipende da una scissione tra vivere e raccontare. Tale crisi recita: «vivere o raccontare.»

Deprecatio temporum 3 .«La vita nell’epoca tardo-moderna è nuda in un modo assolutamente peculiare. Le manca ogni fantasia narrativa.»

Deprecatio temporum 4. «Sullo smartphone la realtà è talmente diminuita che il suo imprimersi in noi non contiene piú alcun momento di shock. Lo shock lascia il posto al like.»

Già. Èd è proprio su uno smartphone che ho raccolto gli ultimi rantoli di questo saggio stilisticamente e tematicamente moribondo.

Alcune note di Han hanno una formulazione debitrice dello stile lepido di Gramellini come la seguente. «L’attuale crisi non è racchiusa nella formula ‘vivere o raccontare’, ma nella formula ‘vivere o postare’». «A portare alla fame di selfie è, piú che altro, un vuoto interiore.»
E ti pareva.

Risparmiatevelo, a meno che non siate proprio masochisti. Insomma, la crisi della narrazione è un tantino esagerata.

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