
Moda & Design
Tra guerra economica e diplomazia commerciale: il lusso nel mirino della propaganda “Made in China”
In risposta ai dazi americani, la Cina sembra voler sfidare l’industria occidentale, promettendo su TikTok di democratizzare l’accesso ai prodotti di lusso e rilanciando il “made in China” come sinonimo di qualità.
Da qualche giorno TikTok è invaso da video virali in cui fabbricanti cinesi dichiarano di voler smantellare il mercato del lusso. Negli ultimi giorni, L’hashtag #chinamanufacturer (fabbricante cinese) ha superato i 13.000 video ed è diventato uno degli argomenti di tendenza sul social cinese, insieme a “cinesi produzione abbigliamento” e frasi come “Louis Vuitton risponde alla Cina”, in riferimento ad alcune dichiarazioni pubbliche di brand di lusso che smentiscono le accuse di produrre in Asia.
L’insieme di questi contenuti appare sospetto e sembra frutto di uno sforzo coordinato a livello centrale. Considerando che molti fabbricanti cinesi operano sotto l’influenza (o la direzione) dello Stato, risulta poco credibile che questa ondata di video sia emersa in modo del tutto spontaneo. I video seguono uno schema ricorrente: una persona con un buon inglese parla in prima persona, mostrando l’interno di un magazzino o showroom dove vengono esibite borse e altri oggetti di lusso.
I toni usati testimoniamo l’intenzione di svelare i segreti su cui si reggerebbe l’industria del lusso. Tra i contenuti più visualizzati e commentati, c’è quello secondo cui una Birkin – l’iconica borsa Hermès, che può arrivare a costare 38.000$ (circa 33.400€) – avrebbe un costo di produzione reale poco inferiore ai 1.400$ (circa 1.200€), considerando materiali, cuciture, componenti metalliche e manodopera.
Secondo un altro video, l’80% delle borse di lusso verrebbe prodotto in Cina: le maison si limiterebbero ad inserire il logo una volta importato il prodotto semipronto in Italia o Francia. Questa affermazione, però, è stata smentita: non solo i marchi di lusso producono principalmente in Europa e negli Stati Uniti, ma le etichette “Made in Italy” o “Made in France” possono essere legalmente applicate solo se l’ultima lavorazione sostanziale è avvenuta in quel Paese. Ciò non toglie che nel tempo vi siano state inchieste e denunce sullo sfruttamento di manodopera cinese sottopagata da parte dei colossi dell’alta moda.
“Immaginatevi se lo stesso prodotto avesse ora il logo ‘Made in China’: pensereste che valga di meno? Se vi sentite così, allora siete stati fuorviati e avvelenati dalla campagna di marketing dei marchi di lusso”. È con questa retorica che si sono diffuse spiegazioni su come ordinare direttamente dai fabbricanti cinesi, eludendo i canali ufficiali di distribuzione cui i modelli originali appartengono. In questa narrazione, i grandi brand vengono ridotti a meri intermediari, visti quasi come ostacoli da aggirare.
In una mossa di diplomazia tanto culturale quanto commerciale, si promuove una visione della Cina sfruttata e vicina agli ultimi, relegata a magri guadagni e ora pronta a ribellarsi alle tariffe trumpiane, promettendo di democratizzare l’accesso al lusso. Oltre a smascherare la “grande truffa” del lusso occidentale, si tenta anche di rilanciare l’immagine della Cina come produttore di qualità.
La reazione degli utenti è stata immediata: c’è chi afferma di aver acquistato borse, sneakers o capi di lusso a pochi euro da magazzini cinesi, e chi promette di indicare il rivenditore “giusto” in cambio di un follow, un like o un messaggio privato. Non mancano i consigli per accedere ai siti cinesi utilizzando VPN e traduttori automatici, oppure vere e proprie vendite in live streaming direttamente su TikTok.
La compravendita di contraffazioni non è certo una novità, seppur ricca di effetti contraddittori: da un lato riduce l’esclusività di un prodotto, ma dall’altro sembra confermarne la fascino, rafforzandone la desiderabilità. Tuttavia, ciò che potrebbe cambiare è la strategia di Pechino, che sembra voler spalancare le porte al mercato del falso come forma di rappresaglia ai dazi USA. Inoltre, la narrazione viene rovesciata affermando che non si tratta di falsi che imitano i veri, ma di “veri” che sono sempre stati prodotti in Cina.
È dunque probabile un’impennata di truffe, che una volta smascherate verranno giustificate con la semplice scusa di aver scelto il rivenditore sbagliato. Pare rilevante ricordare che mentre capita spesso di sentire critiche nei confronti di siti Temu, Alibaba e Shein – per la scarsa qualità, l’insostenibilità e le pessime condizioni degli operai – nel nostro Paese gli acquisti dalla Cina fino a 150€ restano esenti da dazi doganali.
Per ora, rimane il sospetto fondato che dietro questi contenuti non siano frutto di rivolta spontanea degli “artigiani cinesi intelligenti e diligenti” ma di un coordinamento più ampio, mentre cresce nell’utente-consumatore l’incertezza su cosa sia vero e chi abbia ragione. In questo clima di confusione, si fa largo la tentazione di indignarsi verso i magnati del lusso (specie in tempi di recessione) e di aggirare le barriere per accedere a uno status altrimenti irraggiungibile. E la Cina sembra aver capito perfettamente come sfruttare questa narrazione.
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