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Guerra dell’informazione per procura: come i siti di disinformazione russa raggirano le sanzioni UE
Da quasi due anni, in risposta all’invasione dell’Ucraina, l’accesso a RT (ex Russia Today) e Sputnik, principali emittenti di stato russe rivolte a pubblici internazionali, è stato bloccato con una decisione del Consiglio d’Europa del 2 marzo 2022. Più di recente, anche gli USA hanno adottato sanzioni contro RT per evitare le interferenze nelle elezioni presidenziali di novembre 2024.
Tuttavia, queste misure non sembrano aver risolto il problema, evidenziando così la difficoltà di imporre confini agli spazi online. Ciò non dipende solo dalla possibilità di accedere tramite VPN o consultare pagine archiviate, ma anche dalla capacità della Russia di raggirare temporaneamente i divieti grazie una serie di proxy: siti e account social che si presentato all’apparenza come operatori dell’informazione locali, ma sono in realtà finanziati interamente dal Cremlino. Un recente studio del progetto “(Mis)Translating Deceit” (dello UK Research and Innovation) analizza cinque di questi siti – “Reliable Recent News” (RRN), “Berliner Tageszeitung” (BTZ), “Voice of Europe” (VoE), “France et EU” e “Pravda” (nelle versioni inglese, francese e tedesca), sebbene ve ne siano molti altri.
Alcuni di questi siti, già identificati dall’agenzia governativa francese Viginum come parte della campagna di disinformazione “Portal Kombat”, dimostrano che la macchina della propaganda russa fa affidamento su una rete complessa di attori tra cui funzionari statali, servizi d’intelligence, uomini d’affari mossi da interessi economici e simpatizzanti stranieri con ideali anti-sistema. A partire dall’invasione della Crimea nel 2014, Mosca ha intensificato la guerra dell’informazione come strategia di “soft power” per migliorare la propria immagine presso l’opinione pubblica occidentale. Questi contenuti trovano spesso eco nei gruppi più estremi dello spettro politico, sensibili ad una retorica anti-globalista che mira ad erodere la fiducia nelle istituzioni democratiche.
I siti proxy diffondono notizie prese dai media occidentali, a volte leggermente modificate per riflettere posizioni filorusse, altre volte lasciate inalterate (specie se contenenti analisi catastrofiste sul futuro del liberalismo democratico), ma attribuite a falsi autori. Questa sottile manipolazione ha l’obiettivo di guadagnare credibilità agli occhi dei lettori, che saranno poi “fidelizzati” alla fonte quando avranno a che fare con pezzi più controversi mascherati da difesa della libertà di espressione.
Un’altra tecnica di distrazione ricorrente consiste nel presentarsi come fonte interna all’UE, ad esempio attraverso l’uso della bandiera a dodici stelle nel logo di “Voice of Europe” o il riferimento alla capitale tedesca di “Berliner Tageszeitung”, i cui articoli sono stati addirittura condivisi dal partito di estrema destra AfD. Per adattarsi ai contesti culturali e linguistici dei vari Paesi, questi attori combinano intelligenza artificiale e intervento umano. L’IA viene utilizzata per traduzioni automatiche (spesso di scarsa qualità) in francese, inglese, italiano, tedesco, polacco e molte altre lingue e per una distribuzione meccanizzata e dunque massiva che inonda e inquina l’ecosistema digitale. Così funziona l’infodemia, sommergendo lo spazio online con una miriade di contenuti sia autentici che fuorvianti di cui non si riesce più a venire a capo.
Sebbene le autorità cerchino di bloccarli, i proxy sono sempre un passo avanti e sfruttano la volatilità del sistema dei domini, che permette di acquistarne di nuovi a prezzi irrisori. Ad esempio, “Reliable Russian News” è passato da “rrussianews.com” a “rrn.world”, poi da “rrn.media” e infine a “rrn.so”. Questa strategia, caratteristica della campagna di disinformazione russa ancora in atto ribattezzata operazione Doppelganger, punta a registrare domini molto simili a testate autentiche per confondere gli utenti. Rendere più flessibile la regolamentazione per permettere che l’identità online di un marchio si estenda automaticamente a domini alternativi oltre a quello principale, potrebbe rendere più efficace la protezione dei media contro il rischio di impersonificazione e bloccare sul nascere i tentativi di elusione delle sanzioni.
Sorprendentemente, i proxy e i canali Telegram a loro collegati hanno ottenuto ad ora poche visualizzazioni; ciò segnala una discrepanza tra gli ingenti investimenti russi nella creazione e manutenzione di questi siti ed il reale impatto ottenuto. Tuttavia, come sottolinea Thomas Rid, non bisogna cedere all’illusione delle metriche: visualizzazioni, condivisioni e like non sono sempre indicatori affidabili di successo. Saturare lo spazio digitale occidentale con centinaia di articoli è un modo per aumentare il disordine informativo e rivendicare una costante presenza nonostante i limiti imposti, logorando le risorse già limitate di chi combatte la disinformazione. Un ulteriore elemento critico sono i crescenti investimenti della propaganda russa in Africa, America Latina e Medio Oriente o nei paesi extra-UE, come è avvenuto con la recente apertura delle trasmissioni televisive di RT in Serbia.
Parlare di questi temi solleva dubbi sull’opportunità di darvi ulteriore attenzione, poiché esagerarne la portata può produrre effetti indesiderati. Un dato paradossale è fornito da SDA, organizzazione coinvolta nell’operazione Doppelganger, che ha rivendicato come indice per proprio successo la risonanza mediatica della campagna (da Meta al Washington Post). Inoltre, definire tutto come disinformazione rischia di diluire il significato del termine. È allora preferibile usare espressioni che restituiscano la complessità del fenomeno quali “foreign information manipulation and interference” (FIMI), etichetta promossa dal Servizio Europeo di Azione Esterna per indicare questo genere di interferenze da parte di attori statali.
Infine, l’uso dell’IA a fini manipolatori non risulta ancora del tutto convincente: la quantità prevale sulla qualità, ma non bisogna sottovalutare il rapidissimo progresso tecnologico che apre a nuove possibilità, facilitato anche dal progressivo allentamento delle politiche di moderazione dei contenuti da parte delle piattaforme. In questo complesso intreccio di inganni, la sola certezza sembra essere che il vecchio adagio “vedere per credere” non vale più.
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