Scuola

Una scuola, troppe scuole, nessuna scuola

4 Maggio 2015

E così, fra poche ore, sciopero della scuola, per la scuola, contro la #BuonaScuola. Fibrillazione e attesa, di qua e di là della barricata ideale che oppone da un lato il governo, e chi ne sostiene ragioni, dall’altro una variegata platea di insegnanti e ATA, di ogni ordine scolastico, di ruolo o precari (questi ultimi di  corso breve, lungo o lunghissimo),  che questa riforma proprio non la digeriscono.

Vedremo quali saranno i numeri dello sciopero, il primo che, dopo anni, è finalmente riuscito a mettere insieme i sindacati maggiori, da tempo divisi. E vedremo anche, il giorno dopo, quali saranno le reazioni politiche alla protesta: se si cambierà rotta, se il disegno di legge sarà mantenuto, modificato o ritirato.

Di parole ne sono state spese tante, soprattutto in Rete, per spiegare le ragioni degli uni e degli altri: un po’ meno altrove, nei media cosiddetti mainstream, che ancora veicolano nelle case degli italiani la maggior parte delle informazioni  e che, in generale, tendono a semplificare le ragioni dei sì  e dei no.  Ma la scuola non si presta a semplificazioni, non più: è un mondo confuso e contraddittorio, talmente confuso e contraddittorio che persino chi ci vive e lavora da anni fatica a maneggiarne la complessità. E quindi le persone comuni, quelle che della scuola ricordano solo i giorni lontani in cui loro, da alunni, ne  hanno frequentato le aule,  finiscono per non comprenderlo più. Perché i docenti protestano? Forse perché non vogliono essere valutati? perché è più comodo dire sempre “no”? perché vogliono difendere i loro privilegi? oppure perché rifiutano un modello aziendalistico e dirigista che ne mortifica la professionalità?

Certo è che le tensioni attuali stanno portando alla luce fratture, divisioni, disagi. Docenti contro dirigenti, contro altri docenti, contro genitori e alunni, e viceversa.

Ci saranno quelli che non sciopereranno, e non necessariamente perché sono filo-governativi o perché si preparano per tempo ad un futuro di cortigiani attorno al dirigente-monarca che il DDL propone e impone.

C’è chi protesterà ma sotto sotto prova un sentimento di grande irritazione, ad esempio verso i sindacati, colpevoli di essersi svegliati troppo tardi e forse in modo eccessivamente rituale: perché, si dice, alla fine a che serve scioperare un giorno se non a regalare un po’ di soldi allo Stato, e poi, amen, tutti nuovamente in aula a sopportare l’ennesimo «cambiamento epocale»?

C’è chi ci crede e chi non ci crede più, o comunque ha molti dubbi, e chi pensa che alla fine il DDL servirà a smuovere le acque paludose di un’istituzione ormai da troppo tempo priva di vera identità.

C’è chi sponsorizza, in alternativa alla #BuonaScuola, la cosiddetta LIP (Legge di Iniziativa Popolare) e chi invece non sa nemmeno cosa sia la LIP.

C’è chi accende lumini in piazza per commemorare la morte annunciata della scuola, chi fa risuonare pentole e mestoli, chi si prende le manganellate , chi scuote la testa e aspetta semplicemente che la buriana passi.

C’è chi scrive commenti di fuoco sugli innumerevoli gruppi di protesta nati su Facebook, chi si prova ad essere critico nei confronti di chi protesta e viene accusato di essere un troll o peggio

C’è chi si è riconosciuto nel tag #iononsciopero, e chi lo insulta.

C’è il precario che spera nella sospirata assunzione, in qualunque modo e a qualunque costo, e quello che preferirebbe rimanere precario a vita, piuttosto che sottostare all’arbitrio della scelta dirigenziale.

C’è chi racconta la confusione che presumibilmente sarà ingenerata dalla riforma, e chi evoca con toni elegiaci (eventualmente prendendosela con i colleghi non degni) il sogno di una scuola dove alunni e maestri procedono felicemente per mano verso la vera conoscenza, qualunque cosa essa significhi.

C’è chi vagheggia l’utopica immagine di una scuola-comunità, inclusiva, partecipata e veramente democratica, e chi invece si è stancato di colleghi nullafacenti e fancazzisti ed invoca l’agognata meritocrazia ed efficienza aziendalistica che rimetterebbe finalmente le cose a posto,  dando ad ognuno il suo: perché si sa, ci vuole chi comanda, picchia il pugno, punisce e premia, e rimette ordine.

C’è chi firma petizioni e chi ridacchia, e infine chi aspetta con impazienza i cortei di domani, se non altro per sentirsi meno solo.

E infine c’è chi è troppo scoppiato (burn out!) per prendere una qualsiasi posizione e stringe i denti in attesa che arrivi il momento della sospirata pensione: e questi ultimi non sono necessariamente i prof peggiori, sono solo quelli più stanchi, demotivati e sfiduciati.

Vi siete persi in questo confuso elenco? ma questa è la scuola: la scuola dopo vent’anni di interventi politici confusi  e pasticciati, di fughe in avanti e di precipitose ritirate, la scuola dopo Berlinguer-Moratti-Fioroni-Gelmini-Profumo-Giannini/Renzi, ognuno pronto a lasciare la sua «storica» impronta, la scuola persa nel diluvio di chiacchiere su quello che dovrebbe essere il suo ruolo.

Scuola-Azienda, Scuola-Famiglia, Scuola-Comunità, selettiva o inclusiva, severa o comprensiva, meritocratica o capace di recuperare, sanare, rimettere in pista, formativa o informativa, delle competenze o delle conoscenze, del metodo o dei contenuti. La scuola che giudica e che è giudicata, la Scuola-Zoo delle parodie internettiane, del bullismo, dell’emarginazione, dell’omotransfobia. La scuola pubblica, sottofinanziata e in affanno,  che fa quello che può come può, e la scuola privata, minoritaria e spesso deficitaria in termini di risultati ma vezzeggiata dagli ideologizzati paladini della «libera scelta» contro lo statalismo brutto e cattivo. La scuola delle LIM (Lavagne Interattive Multimediali) e dei soffitti che crollano, la scuola della «testa ben fatta» o della «testa piena di nozioni», la scuola dei test e la scuola che vuole essere creativa, la scuola che si mette in vetrina e la scuola che si nasconde, leccandosi le ferite. La scuola dei prof più vecchi di Europa, sottopagati e sbeffeggiati, la scuola che non ha ancora risolto i dilemmi del reclutamento (GAE, seconda, terza fascia,  abilitati e non abilitati, TFA, PAS, SSIS) in un delirio di scelte contraddittorie che non hanno fatto che produrre nuova precarizzazione e nuovo disagio. Scuola della cultura, palestra di democrazia, socratico strumento di educazione alla critica e alla libera scelta,  o scuola  che deve semplicemente addestrare  lo studente-cliente al suo destino già scritto di consumatore-precario

Ognuno ha in mente la propria ricetta, per arginare la confusione. Ma quello che manca, alla fine, è un’idea condivisa di che cosa la scuola debba essere, davvero. Non lo dice la riforma renziana, non lo dicono i proclami sgrammaticati del sottosegretario Faraone (che poche ore fa ha scritto sulla sua bacheca facebook «domani in piazza ci sarà una minoranza del paese, la più chiassosa, ma sempre di minoranza si tratta. I sindacati conservatori costruiscono le paure e poi le cavalcano. Noi abbiamo dal primo giorno puntato sulla fiducia e sulla speranza. È più dura, ma siamo certi che ce la faremo», dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno,  che la retorica abusata della fiducia e della speranza non sente il bisogno di ascoltare quello che non è un disagio «fomentato ad hoc» ma l’esito concreto di una storia troppo lunga e contraddittoria);  in fondo non lo dice nemmeno chi protesta, né possono dirlo i sindacati. Nel caos,  quello che resta sono le contrapposizioni ideologiche, ma soprattutto i pregiudizi e gli stereotipi: i prof privilegiati che fanno tre mesi di vacanza, gli studenti vagabondi, i genitori avvocati difensori della prole a prescindere, i docenti missionari e martiri, quelli ruffiani e arrivisti,  e ancora gli ispirati ed entusiasti contrapposti ai grigi e annoiati esecutori di compiti imposti,  i dirigenti affamati di potere che incoraggeranno il peggiore clientelismo, perché «si sa, siamo in Italia, i raccomandati avranno sempre la meglio sulle brave persone».

Non sarà il pasticciato DDL a risolvere le contraddizioni, e non lo farà , beninteso, nemmeno  lo sciopero di domani (né quelli che verranno, se verranno). Ci vorrebbe forse una vera discussione pubblica (non la risibile consultazione renziana, inattendibile e manipolabile, vera operazione di marketing, i cui nebulosi risultati sono peraltro rimasti avvolti nel mistero), una riflessione di tutti,  profonda e motivata, sul nostro presente e soprattutto su quello che vogliamo sia il futuro dei nostri ragazzi. Dovremmo mettere da parte la demagogia e il populismo, da una parte e dall’altra, e avere il coraggio di guardare la realtà delle cose.

Ma forse, chissà, il problema viene prima della scuola. Il problema è la perdita di valori condivisi, la crisi profonda di un mondo che procede a vista, senza sapere bene quale direzione intraprendere, in cui le distinzioni si offuscano e lo storytelling prende il posto dei fatti, che sono nudi, crudi, brutali. Troppa ideologia, poche idee vere: e perdonate se anch’io, questa volta, mi sono abbandonata alla tentazione dello slogan facile e scontato.

[Doverosa precisazione:  domani farò sciopero, perché arrivati a questo punto bisogna pure scegliere da che parte stare e la #BuonaScuola non rappresenta né me né il lavoro che quotidianamente svolgo in classe. Ma questo non significa che non riconosca le ragioni di chi invece farà una scelta diversa dalla mia: perché qualche ragione c’è, anche in quel caso, e non secondaria. E questo clima rissoso e rancoroso non farà bene, in nessun caso, alla scuola: che il DDL passi o non passi, che lo sciopero abbia o non abbia successo. Non ho ricette:  in fondo sono solo una prof, proletariato intellettuale, e non ho titoli, se non trent’anni di lavoro in aula. Eppure credo che, se ricetta deve essere trovata, dovremo sforzarci di farlo insieme, dirigenti, docenti, genitori e alunni, al di là di steccati, diffidenze, pregiudizi].

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