Scuola
Il tempo della scuola
Aprire le scuole a giugno, perché si è perso troppo tempo. Con questo proposito, che riprende una proposta diffusa da tempo dal gruppo Condorcet, Mario Draghi si presenta al mondo della scuola. Vorrei spiegare per quali ragioni questa proposta, che sembra nascere da una reale preoccupazione per il bene dei nostri studenti, rivela invece inconsapevolezza pedagogica e disprezzo per i docenti.
Per la scuola italiana questo è il periodo in cui si attua un primo bilancio dell’anno scolastico. Gli scrutini del primo quadrimestre sono stati appena conclusi, è possibile verificare se ci sono stati e quanto sono stati importanti i danni della didattica a distanza. Ora, un ragionamento serio sulla scuola partirebbe da qui. E’ stato fatto un lavoro e i risultati di questo lavoro sono stati valutati. Cosa è emerso dalle valutazioni? Quanti studenti sono rimasti indietro? Quante sono, nelle diverse scuole, le insufficienze? Dire che si è perso tempo, senza considerare questo dato, significa parlare del nulla. Se si è perso tempo o meno possono dirlo solo i docenti, gli unici che hanno il diritto di valutare i risultati del loro lavoro. Nel mio caso, ad esempio, in quattro delle cinque classi che mi sono state affidate sono rimaste alla fine del quadrimestre rarissime insufficienze. In una, invece, le insufficienze sono molte, ma ci sono anche almeno tre studenti che con la didattica a distanza sono migliorati sensibilmente. Il bilancio è nel complesso tutt’altro che allarmante.
Dichiarando che si è perso tempo, e che questo tempo bisogna recuperarlo, si manca di rispetto ai docenti in due modi. In primo luogo, considerando nulla il lavoro, spesso enorme, che è stato fatto in questi mesi di didattica a distanza. In secondo luogo – e in modo più grave – considerando nulle le loro valutazioni. I sette, gli otto, i nove messi in questi mesi non valgono niente. Si stabilisce dall’alto che sono invece delle insufficienze. Nulla vale la valutazione del docente, nulla vale il lavoro fatto da lui e dallo studente per giungere a quel risultato. Mesi di lavoro vengono nullificati dall’alto. Senza nulla sapere, senza nulla vedere. Così. Insegno da più di vent’anni, credo di poter dire che nessuno ha mai mancato di rispetto in questo modo a noi docenti. Ed ho l’impressione che non si tornerà indietro.
Dicevo dell’inconsapevolezza pedagogica. Non è un grande argomento, perché in questo paese la pedagogia è circondata da disprezzo unanime, e dire di qualcuno che è pedagogicamente incompetente è quasi fargli un complimento, ma qualche considerazione vorrei farla comunque, da pedagogista e da docente.
Per dieci anni ho insegnato in un Liceo che aveva gravissimi problemi di abbandono scolastico, in particolare al biennio. Ragazzine – era un Liceo delle Scienze Umane – che venivano a scuola perché costrette dall’obbligo scolastico, e avevano spesso alle spalle famiglie che dicevano loro che lo studio e la scuola non servono a nulla. Le provammo tutte per affrontare il problema, con esiti frustranti. Ma una cosa comprendemmo: che aumentare il tempo scuola non funziona. Tenere a scuola più tempo ragazzine che la scuola non l’amavano sortiva un solo risultato: aumentare la nausea e il rifiuto. Bisognava piuttosto cambiare la qualità della scuola.
La didattica a distanza funziona con gli studenti motivati. Che nel mio caso sono la grande maggioranza. Credo anche di poter dire che sul piano strettamente cognitivo hanno anche acquistato qualcosa (se non altro molte competenze digitali); ciò che si è perso è sul piano umano e relazionale.
Il problema riguarda gli studenti con difficoltà. Ora, le difficoltà possono essere di due tipi: problemi cognitivo-relazionali e problemi di motivazione. Ho notato, e lo hanno notato anche molti miei colleghi, che i primi spesso traggono vantaggio dalla DaD. Perché, ad esempio, si fa al computer, e il computer è uno strumento che uno studente con disturbi di apprendimento è abituato ad usare più dei suoi compagni. O perché lo spostamento dell’aula nella dimensione virtuale blocca alcune dinamiche violente che rendevano frustrante per qualche altro studente l’esperienza scolastica. Il problema è grave invece per chi ha problemi di motivazione. Lo studente che a scuola frequentava saltuariamente, e in classe era assente, o si perdeva nei corridoi dopo aver chiesto di andare in bagno, a distanza lo perdi del tutto. Non si collega, o se si collega sta facendo chissà cosa.
Questi studenti rischiano di perdersi con la DaD. Ma aprire le scuole in estate per recuperarli significa non aver capito granché del problema. Bisogna che uno studente sia molto motivato per frequentate a giugno, in presenza, la scuola che non ha voluto frequentare a novembre comodamente collegato da casa sua. Bisogna, cioè, che abbia come prerequisito proprio ciò la cui mancanza ha causato il problema che si pretende di risolvere.
La scuola si considera da sempre una istituzione salvifica. Chi sfugge ad essa è perso. Extra scholam nulla salus. Fare più scuola, aumentare la quantità dell’offerta, non può che essere un bene. Se fosse meno autoreferenziale, la scuola capirebbe invece di aver bisogno di un vasto sostegno sociale, senza il quale è inefficace nei contesti più difficili, lì dove la scuola non è un valore condiviso. Più che tenere aperte le scuole d’estate, bisognerebbe parlare di sostenere seriamente l’educazione di strada, il volontariato educativo, i gruppi che fanno da ponte tra la scuola e la famiglia nei quartieri difficili. E magari ragionare di qualità e non di quantità della scuola. Perché la scuola che facciamo da sempre è una scuola che piace solo a chi crede nello studio.
La didattica a distanza ha i suoi limiti, e non mi schiererò certo tra i suoi sostenitori entusiasti (nemmeno, però, con i fanatici della presenza), ma ha avuto il merito indubbio di costringere i docenti italiani a riflettere sul loro lavoro. Cosa vuol dire davvero insegnare? Cosa è essenziale, cosa accessorio? Come apprendono gli studenti? Cosa vuol dire valutare? Cosa valutare? Tutte queste domande, cui credevamo di aver dato una risposta una volta per tutte, sono tornate a galla, e abbiamo dovuto trovare nuove risposte. Quello che è da fare, ora, è ripartire da queste domande. Può essere che mi sbagli, ma mi pare che mai in passato docenti, studenti, genitori siano stati costretti a riflettere sulla scuola, avendo l’esperienza concreta di una alternativa. Chiudere questa esperienza offrendo a tutti una dose supplementare di scuola tradizionale significa sprecare una occasione storica per ripensare davvero la scuola italiana. Significa davvero perdere tempo nel senso non del chronos, il tempo cronologico, ma del kairos, il tempo propizio, nel quale cose nuove possono accadere.
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