Quanto è difficile il dibattito su #labuonascuola
Ieri ero incatenato alla mia scrivania in viale Trastevere, sede del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, e mi sono perso la presentazione dei risultati della consultazione pubblica sulla Buona Scuola, il documento del governo che traccia una sorta di gosplan sul futuro dell’istruzione. Uso del web, incontri a tema, social: insomma, tutta la panoplia a disposizione del decisore pubblico è stata utilizzata. Mi spiace soprattutto di non aver potuto fare i miei complimenti a chi ha seguito l’organizzazione della consultazione, perché è stato un lavoro immane. Sottolineo un aspetto. Chi parla di numeri bassi, o non conosce il “mondo scuola”, o, più probabilmente, fa finta di non conoscerlo. Basta aver assistito anche una sola volta a un collegio docenti. E, ancora: solitamente lo schema è che chi è scontento si oppone ovvero protesta nelle forme più varie, chi è soddisfatto tace (con eccezioni organizzate: vedi il pressing del “concorso 2012”), a parte voci libere da ascoltare con attenzione, ma che è difficile enucleare dallo sferragliare di sottofondo. Senza contare che l’attenzione mediatica, da sempre, è concentrata su alcuni momenti topici, e per il resto, con rare eccezioni, è rivolta altrove; è spesso superficiale, perché sono pochissimi non solo i giornalisti espressamente dedicati, ma in possesso degli strumenti o della volontà di partire dalla lettura degli atti di una normazione tra le più complesse e a volte scombinate; parte dal pregiudizio (errato) che alla pubblica opinione, fatti salvi i momenti canonici), il tema non interessi. Con questo substrato, secolare, arare il campo è davvero dura. E lo posso dire per essere stato il primo a imporre una consultazione pubblica (sui percorsi liceali) e per avere costantemente, da consigliere del ministro, sottoposto gli atti in prima lettura non solo a un gruppo di amici che mi porto dietro da allora, ma al dibattito sul web. Utilissimo: purché, per l’appunto, non lo si consideri alla stregua di un referendum o di un termometro, ma per cogliere, tra il groviglio di idee e di interessi, questioni tecniche reali, che magari sono sfuggite. Perché, a volte, i pronunciamenti non hanno alcuna relazione col dato reale, chiedono interventi che non hanno bisogno di nuove norme (che già ci sono), ma di applicazione delle stesse o di diversi comportamenti: faccio l’esempio della lingua inglese, che in Italia si giova di un monte ore globale equiparabile con quello dei sistemi educativi ove è universalmente appresa; o del mantra dell’elevamento dell’obbligo che già è nell’ordinamento (il diritto/dovere all’istruzione sino al diciottesimo anno di età o al conseguimento di una qualifica). Fatta questa premessa, nei prossimi giorni vorrei concentrarmi su alcuni temi, a partire dai risultati della consultazione e dal confronto con ciò che c’è e con le proposte della Buona scuola. Suggerimenti sulle priorità sono, come al solito, benvenuti.
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