L’”infame”, il matematico, lo sportivo: tre adolescenti di oggi
Hanno tutti e tre quindici anni appena compiuti. Tutti e tre sono nati e vivono in Italia, e tutti e tre vanno a scuola.
Il primo, definito l’”infame” [notasi bene: sostantivo, non aggettivo] dal nostro massimo linguista vivente, ha compiuto alcuni piccoli reati e un orrendo e violento delitto. E’ povero, e viene da una famiglia disastrata.
Di lui, dopo il delitto, la sua insegnante ha detto: “Il problema vero è che era abbandonato a se stesso. Lui e suo fratello non avevano da mangiare, letteralmente. Facevamo degli acquisti a turno per comprargli panini e cibo. Aveva delle potenzialità positive, ma la sua condizione familiare azzerava tutto. Il Comune pagava bollette, spesa, affitto, la Caritas offriva il pacco, ma quei figli non studiavano e non volevano ascoltare. Perché non erano stati educati a farlo».
Il secondo ragazzo ha appena vinto, per il secondo anno consecutivo, i campionati internazionali di matematica. A scuola è bravissimo in tutte le materie, e anche negli sport. Ha un padre e una madre che lo seguono molto. La famiglia è abbiente. Insieme a un professore d’università di matematica, sta scrivendo un libro su enigmi, problemi e giochi matematici, che verrà pubblicato tra qualche mese. E’ alto, molto socievole e simpatico. A vederlo e sentirlo parlare, si capisce subito che è un ragazzo felice, più che appagato da quello che fa ed è.
Il terzo è un ragazzino con una faccia molto aperta e un corpo ancora esile (ha appena compiuto quindici anni). Con lui, vieni immediatamente e inesorabilmente coinvolto, anzi travolto dal suo grande entusiasmo e dalla sua evidente felicità e gioia di vivere. Va a scuola (è bravo, in regola con tutte le materie), e il pomeriggio va a giocare a calcio. Ma non in un campetto qualsiasi, con gli amici, coi suoi compagni di scuola, bensì in una squadra di serie B. “Vedi”, ti dice, “cosa potrei volere di più? Faccio la cosa che più mi piace al mondo – giocare a calcio – in cui sono bravo, e diventerò ancora più bravo. Se mi impegno, aggiunge infatti, di sicuro l’anno prossimo andrò in serie A “under quindici”. Guarda (e me le fa vedere) mi regalano tutte le magliette e le scarpe (di marca, belle, come le Nike ultimo modello) e, in più, mi danno anche 700 euro al mese. (E in A mi daranno ancora più soldi).” E’ un ragazzo molto gentile ed educato, estremamente socievole. I suoi genitori sono separati, e lui vive un po’ con il padre e un po’ con la madre; va spesso a trovare la nonna. Anche la sua famiglia, come quella del secondo ragazzo, non ha problemi economici.
Qual è la differenza fondamentale tra i tre ragazzi? A dirsi, è semplice: due sono felici e uno infelice. L’infelice è violento e delinque, gli altri due vivono in un mondo estraneo alla violenza e alla delinquenza.
Sarebbe sbagliato, e molto superficiale (soprattutto per un economista) rispondere che questa differenza deriva dalle differenti condizioni economiche delle rispettive famiglie. Come sarebbe sbagliato attribuire la delinquenza del primo a un’assenza e indifferenza totale della società nei suoi confronti: c’era infatti la scuola, c’era la Chiesa (la Caritas), c’era anche il gruppo degli amici e delle amiche.
Uno psicoanalista farebbe piuttosto risalire queste grandi differenze ai primi mesi e anni di vita del ragazzo, al suo rapporto con la madre ‘buona’ e la madre ‘cattiva’, al suo essere stato, o meno, voluto, amato e desiderato, nel profondo, e pertanto adeguatamente ‘curato’.
Io penso che ciò sia vero; ma vorrei proporre una riflessione diversa, ponendomi su un piano più vicino alle nostre concrete possibilità di intervento.
Una differenza fondamentale tra i tre ragazzi è che due di loro sono molto ‘dotati’ – gifted, direbbero gli Inglesi: uno per la matematica e gli scacchi (quasi la stessa cosa), l’altro per uno sport (qui è il calcio, ma se fosse il tennis – come peraltro è il caso di suo fratello – nulla cambierebbe).
Ora, non tutti noi umani (e animali) abbiamo la fortuna di avere genitori o parenti che ci amano e desiderano davvero; non tutti noi umani (e animali) abbiamo la fortuna di essere particolarmente dotati, intellettualmente o fisicamente, e pertanto con una maggiore probabilità di essere felici e avere successo nella vita, belle magliette, tanti soldi, belle macchine, belle ragazze, bei lavori… (Anche se, per avere tutte queste cose, occorre spesso impegnarsi molto, e, in qualche modo, ‘sacrificarsi’– come appunto fanno i due ‘bravi’ ragazzini di cui sopra: gli allenamenti per diventare un Magnus Carlsen o un Neymar sono molto faticosi.)
E allora? Che cosa si deve fare per tutti gli altri, per gli altri, la maggioranza si suppone, che non siano gifted? Per tutti quei ragazzi che non abbiano il demone interno che li spinge a realizzare le loro grandi qualità naturali? O che, proprio, la natura non ha concesso loro?
La mia risposta – da economista – è facile e immediata: occorre una buona scuola, una scuola che offra non solo istruzione e cultura, ma soprattutto determini e sviluppi un percorso di incivilimento. Una autentica buona scuola è una comunità, accanto alla famiglia e alle altre istituzioni sociali (che magari non ci sono, o, se ci sono, sono inadeguate, insufficienti, come si è visto, a impedire che un ragazzo diventi un “criminale in erba”), che permetta agli individui, ai ragazzini e alle ragazzine, ma anche agli adulti docenti e dirigenti, di stare bene insieme, e insieme risolvere (o cercare di risolvere) i problemi che hanno tutti, i dotati e i non dotati. Cioé, in altre parole, una comunità che permetta di controllare e dominare i propri sentimenti aggressivi e negativi e di sviluppare quelli positivi. Non dobbiamo mai dimenticarci che tutti noi, dotati o meno che si sia, animali e umani, abbiamo naturalmente sia gli uni sia gli altri.
Come ci ha insegnato Freud, l’importante è infatti far prevalere – ed è soprattutto questo il compito della scuola – l’istinto di vita su quello di morte, il desiderio appagante su quello distruttivo e autodistruttivo.
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