Scuola
La continua valutazione degli studenti è solo un supplizio
LA VALUTAZIONE SCOLASTICA: DEGLI ALUNNI O DEI PROFESSORI?
Riflessioni di un genitore su come dovrebbe cambiare la valutazione nella scuola italiana.
SEI
Fino ad adesso ho semplificato, anzi ho praticamente dato per scontato che la valutazione fosse uguale al voto o alla sommatoria di una serie di voti, ricombinati secondo una serie di possibili criteri, in genere la media matematica, per poi ottenere il voto finale da scrivere sulle pagelle degli alunni (in questo caso si parla di valutazione sommativa).
In realtà le tipologie di valutazione sono moltissime e non è detto che debbano per forza coincidere con la somministrazione di un voto. Esiste per esempio la valutazione formativa o educativa, in cui il docente non mira a “fotografare” lo stato delle conoscenze su un certo argomento da parte di uno studente, ma ha piuttosto l’obiettivo di monitorare i progressi, gli obiettivi raggiunti e le eventuali debolezze, per poi definire insieme a lui quali sono le aree in cui deve impegnarsi per migliorare le sue abilità nella materia in questione e quali saranno i prossimi obiettivi da raggiungere. Non è affatto detto che a questo tipo di valutazione debba per forza corrispondere un voto, perché la valutazione formativa potrebbe addirittura supporre che il docente abbia semplicemente un colloquio con l’alunno o che si impegni a scrivere un giudizio descrittivo, proprio con l’obiettivo di accompagnarlo (senza l’uso del voto) nel suo processo di apprendimento.
Quello che vorrei chiedere ai docenti che invece usano ancora a mani larghe i voti è se sono così sicuri che le continue valutazioni a cui oggi sono sottoposti i ragazzi non siano nemiche dell’apprendimento. Quale sarebbe l’adulto che si impegna con tutto se stesso per raggiungere dei buoni risultati sul lavoro, disposto ad accettare tre o quattro valutazioni alla settimana, magari espresse con un voto, dai suoi responsabili? Insomma, nel mondo del lavoro esistono delle forme di valutazione, ma con la caratteristica perlomeno di una discreta periodicità: una volta all’anno, una volta ogni sei mesi, una volta ogni tre, ma non di più.
Altrimenti, se le valutazioni fossero settimanali e non soggette alla possibilità se non di una contestazione, ma almeno di un onesto scambio di opinioni tra valutatore e valutato, credo che il rischio di autolicenziamento diventerebbe altissimo. Anzi, è probabile che i dipendenti delle aziende che pretendessero di valutare i loro dipendenti tre volte alla settimana potrebbero dire: “Ci trattate come dei bambini!”. In questo caso, la parola “bambino” starebbe a indicare qualcuno che non può ribellarsi a un’autorità superiore ma è costretto ad accettare la sua volontà, proprio in virtù di un rapporto di forza al quale non si può opporre by definition.
Da questo punto di vista sono d’accordo con Cristiano Corsini che ha scritto un libro brillantissimo, “La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto” (1), in cui dice ai docenti: “Rendetevi conto che la valutazione è un atto di potere”. Questa affermazione – che condivido profondamente – avrebbe trovato anche l’approvazione della mia vecchia maestra, che usava sempre solo la parola “Bene” quando doveva valutare i nostri compiti. Le stava a cuore che noi amassimo la scuola e prendessimo a prestito i libri della biblioteca del nostro istituto e, tutti i giorni, alla fine delle quattro ore di lezione, ci leggeva sempre qualche pagina di un libro per bambini, proprio per farci capire che studiare ci sarebbe servito a leggere quei bellissimi libri di avventure anche da soli.
Mio figlio invece ha sempre e solo studiato per prendere sei, non sette né otto, gli bastava prendere sei, specialmente quando era arrivato alle superiori. C’erano tredici materie al biennio delle scuole superiori, e gli insegnanti sembravano rincorrersi tra chi era più bravo a riempire di voti il registro elettronico, finendo per somministrare anche quattro verifiche alla settimana.
Io sono stata più fortunata di lui, perché al liceo la mia amatissima insegnante di italiano ci faceva fare tre o quattro temi a quadrimestre e poi ci interrogava una o due volte, sempre per quadrimestre, e nessuno di noi aveva paura di prendere un brutto voto – credo ne abbia dati veramente pochi – ma tutti leggevamo con passione i testi che ci consigliava: ricordo persino qualche lacrima che mi scendeva dagli occhi umidi sull’ultima strofa di “Dei sepolcri” di Ugo Foscolo. Una brava insegnante di italiano ti insegna a piangere quando leggi una bella poesia: questa dovrebbe essere la sua missione.
Purtroppo, la situazione nelle scuole italiane sembra ben diversa, fatto a cui dobbiamo aggiungere la presenza di un ministro dell’istruzione – sto scrivendo nell’ottobre del 2024 – che appartiene a un partito di destra. Non voglio farla lunga sulle differenze tra destra e sinistra, ma ho appena inserito su Google il nome di Valditara + “bocciare”, e ho ottenuto 121.000 risultati; ne ho ottenuti 81.000 sempre cercando il nome di Valditara + “bocciati”. Bisogna purtroppo ammettere che questo periodo sia contraddistinto dall’idea che solo la severità, i brutti voti, le punizioni, le umiliazioni, le sospensioni e il cinque in condotta con cui si viene appunto bocciati, siano la cura amara e necessaria non tanto per la scuola italiana, ma per i suoi studenti, che sono gli “ammalati” gravi da curare.
Immagino si sia già compreso il mio pensiero a proposito di misure come il DASPO urbano per i cattivi studenti e addirittura due anni di carcere per i loro genitori (2). Secondo questa visione del mondo, gli adulti non sbagliano mai, tranne nel caso in cui siano “genitori”. Tra gli adulti che non sbagliano mai ci sono naturalmente i docenti, ma anche il ministro dell’istruzione nonché l’intero corpo del personale che lavora al ministero e, se qualcosa va male a scuola, la colpa è degli studenti e dei genitori che non hanno saputo educare la loro pessima prole.
L’unica controprova della veridicità di una simile affermazione dovrebbe essere la dimostrazione statistica che i figli dei summenzionati soggetti che non sbagliano mai siano sempre davvero dei perfetti studenti. Siccome esistono delle statistiche che dimostrano proprio la veridicità di una simile affermazione, ovvero che i figli dei laureati (e quindi si suppone anche degli insegnanti) vanno molto meglio a scuola di quelli con i genitori dotati di un titolo di studio inferiore – studi effettuati dalla Banca d’Italia oltre che da altri istituti di ricerca (3) – allora rimane il problema: che si fa con i ragazzi che non hanno alle spalle una famiglia in grado di supportarli durante il faticoso cammino scolastico? Li bocciamo tutti e li mandiamo a friggere hamburger nei McDonald’s, professione tra l’altro richiestissima?
Un’ex-presidente della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha tenuto addirittura una lectio magistralis alla Sapienza di Roma (4) sulla correlazione positiva tra istruzione e prodotto interno lordo pro capite, ovvero più i cittadini di una nazione sono istruiti, e più alto sarà non solo il loro reddito, ma anche quello complessivo della nazione. La scuola deve quindi fare tutto il possibile per trattenere al suo interno il maggior numero di studenti. L’obbligo scolastico è stato innalzato a sedici anni, ma perché studiare serva a qualcosa, bisogna prendere almeno un diploma di scuola superiore. E siccome sappiamo che lasciano la scuola i ragazzi che “vanno male”, per ragioni quasi sempre legate “statisticamente” alla loro famiglia d’origine, dobbiamo evitare che la punizione per essere poveri – oggi si chiama “povertà educativa”, ma è pur sempre povertà – ricada sui figli dei poveri.
Nei due prossimi articoli offrirò ai docenti i miei modesti consigli per valutare meglio gli studenti, perchè l’unico obiettivo che i docenti dovrebbero avere, se facessero con coscienza il loro lavoro è uno solo: convincere gli studenti a continuare gli studi, invece di sbatterli fuori dalla scuola a colpi di tre, note di comportamento, sospensioni, eccetera. Siamo uno dei paesi europei con il maggior numero di abbandoni scolastici e il minor numero di laureati: sarà sempre colpa delle famiglie se si verificano questi fenomeni? Oppure no?
(1) Cristiano Corsini, La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto, Franco Angeli, Milano, maggio 2023.
(2) DECRETO-LEGGE 15 settembre 2023, n. 123, Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale.
(3) Banca d’Italia, Eurosistema, Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio, Istruzione, reddito e ricchezza: la persistenza tra generazioni in Italia, n.476, dicembre 2018; Brunetti I., Istruzione e mobilità intergenerazionale, un’analisi dei dati italiani, Sinapsi, 2020, n.3, pp 48-63.
(4) Mario Draghi, Istruzione e crescita economica, Lectio magistralis in occasione dell’apertura dell’anno scolastico, Facoltà di Economia, Università La Sapienza di Roma, novembre 2006.
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