Scuola
Fuori i genitori dalla scuola (e dalla valutazione)!
LA VALUTAZIONE SCOLASTICA: DEGLI ALUNNI O DEI PROFESSORI?
Riflessioni di un genitore su come dovrebbe cambiare la valutazione nella scuola italiana.
TRE
C’è un grido che si leva identico dai docenti ma anche da molta dell’opinione pubblica italiana: “Fuori i genitori dalla scuola!”, che in sostanza significa: “Fuori i genitori dalla valutazione”, perché i genitori sarebbero in realtà i rappresentanti sindacali dei loro figli: vogliono difenderli a tutti i costi dalle mortificazioni che potrebbero venire indotte da una valutazione negativa, necessaria e benvenuta, quando il ragazzo se la “merita”.
Come ho già scritto, chiunque sia passato per una scuola sa che anche gli insegnanti possono sbagliarsi quando valutano i loro studenti. I motivi li abbiamo già visti negli articoli precedenti che vi invito a leggere (1) (2). Può quindi capitare che qualche genitore, magari con un figlio dislessico come me, vada a mettere il naso nei criteri valutativi usati dai docenti. In qualche caso può addirittura verificarsi quello che era successo a mio figlio con il professore di fisica, ovvero che il mio intervento (in cui avevo contestato il voto che gli aveva dato in una verifica) si era rivelato positivo, modificando l’atteggiamento del valutatore, che aveva interrogato mio figlio con più attenzione, scoprendo che in realtà era bravo in fisica.
Nella maggior parte dei casi, ho invece riscontrato che gli insegnanti ritengono irrimediabilmente un’intrusione la presa di posizione di un genitore su una valutazione negativa: “Lei è un ficcanaso, si deve fidare di me: un quattro è un quattro!”. Il problema è che io ficcavo il naso nelle valutazioni di mio figlio anche perchè venivo chiamata dai suoi insegnanti ogni volta che lui prendeva un’insufficienza: sul registro elettronico comparivano delle note in cui mi si convocava a scuola per fare un colloquio in orari in cui lavoravo (e non potevo perdere una mezza giornata di ferie ogni volta che mio figlio prendeva un’insufficienza!).
Il problema di tutte queste chiamate di correo ai genitori è che nella scuola italiana non si è ancora ben deciso a chi attribuire la responsabilità della cattiva riuscita di un alunno: a lui o alla sua famiglia, magari a entrambi, ma mai al docente della materia in questione. Mandare a chiamare la famiglia di un alunno che ha preso un’insufficienza significa sempre e solo chiedere ai genitori di darsi da fare per il “recupero” dello scolaro che sta ricevendo delle cattive valutazioni.
Tutte le volte che venivo infatti convocata da un docente per dirmi che mio figlio aveva preso un brutto voto, la mia risposta era sempre la stessa: “Non si preoccupi, lo manderò a ripetizione”. Bene, a questo punto gli insegnanti si sentivano in qualche modo con la coscienza a posto, perché avevano dichiarato che lo studente era in difficoltà e ne avevano scaricato la colpa sulla famiglia, che avrebbe dovuto occuparsi di più e meglio dell’asino in questione (solo e semplicemente dislessico, nel nostro caso, ma i docenti spesso non si affidano a queste sottigliezze per capire le ragioni dell’andamento scolastico di un ragazzo).
Con mio figlio, ho avuto una grande fortuna: mio fratello era in grado di dargli ripetizione su quasi tutte le materie scientifiche: dalla chimica alla fisica, alla matematica, alla programmazione in Java o in SQL. Quando potevo, gli facevo ripetizione anch’io, nelle materie letterarie, altre volte mi affidavo a qualche insegnante privato. Il fatto che mio fratello, pur essendo stato anche lui un modestissimo studente, avesse quel che si potrebbe definire una notevole cultura scientifica, oltre al fatto che fosse appassionato di programmazione (come hobby, non come lavoro principale) ha permesso a mio figlio di finire le scuole superiori senza che io abbia dovuto ipotecare ulteriormente la casa in cui viviamo (già gravata da un mutuo). Io e mio figlio, quindi, grazie a mio fratello, che era molto più intelligente di quanto non pensassero i suoi insegnanti, possiamo dire di essere stati molto fortunati. Ma cosa succede ai ragazzi che non hanno dei familiari “esperti” ad aiutarli e che non hanno i soldi per le ripetizioni? Vanno male a scuola, questa è la risposta.
In realtà, le ripetizioni potrebbero essere sostituite da un buon doposcuola, fatto solo per gli studenti che si trovano in difficoltà (per i motivi più diversi, non sto qui ad elencarli), e hanno bisogno di quel che definirei “lezioni personalizzate”, in cui lo studente può interrompere il docente anche a metà della spiegazione: “Scusi, è proprio questa la cosa che non capisco!”, mentre quando si è in aula, l’insegnante in genere tira dritto fino alla fine dell’esposizione di un nuovo argomento e poi, ma non sempre, chiede: “Avete domande?”. Spesso, chi non è stato in grado di seguirlo, non si ricorda neanche “quando” ha cominciato a non capire.
Per questi studenti potrebbero funzionare anche gli aiuti tra pari, ovvero il più bravo della classe spiega a quelli meno brillanti (o solo un po’ più lenti) un argomento che non hanno capito durante la lezione e poi fa insieme a loro qualche esercizio, in cui vengono corretti gli errori di svolgimento senza che siano evocati i voti: “Hai sbagliato e ti do quattro!”.
Ma nella classe dell’istituto tecnico che frequentava mio figlio non era previsto nulla del genere. Tant’è vero che di allievi sopravvissuti alla “scrematura” di ben due classi partite con trenta iscritti ciascuna, ne erano rimasti, al terzo anno, diciassette. Fatto che secondo me dovrebbe essere valutato come un gravissimo fallimento della scuola in questione e non di ciascuno dei quarantatré alunni che l’avevano (presumibilmente) abbandonata dopo una bocciatura o una sfilza di cattivi voti che li aveva sconfortati al punto tale da convincerli ad andarsene, forse per iscriversi a un’altra scuola ritenuta più facile, ma più probabilmente per cercare un lavoro, perché a sedici anni è già possibile lavorare.
In tutti questi anni, mi sono convinta che i genitori starebbero ben lontani dalla scuola se potessero, ma vengano regolarmente chiamati in causa quando un alunno ha un cattivo rendimento, per sviare dalla scuola, o quanto meno per compartecipare con i genitori la responsabilità della sua performance scolastica. Questo per quanto riguarda i genitori degli “asini”, ma quando si parla di genitori in generale, li si intende spesso come un elenco indistinto di imbelli, rei di una serie infinita di colpe.
Sono per esempio i disprezzati “amici dei figli”, espressione che immagino significhi dimostrare un’eccessiva indulgenza nei confronti delle disfatte scolastiche e personali che può incontrare un adolescente. E qui entriamo nel campo dei consigli dal sapore ottocentesco: mai essere troppo dolci e gentili con un ragazzo che va male a scuola, ma saper usare la giusta dose di bastone! Certo, solo in senso metaforico, ma è sempre bene rimarcare la differenza di posizione gerarchica tra genitore e figlio, come se il problema fosse tutto lì: “Sono io che comando, tu devi solo ubbidire” (e prendere otto in matematica, anche se nessuno te la spiega come si deve).
Credo che sia questo il significato attribuito all’espressione “essere amici dei figli”, anche se vorrei dissentire dall’accusa rivolta ai genitori di mettersi sempre in una postura educativa troppo conciliante con i loro pargoli. Si può avere un rapporto sincero con i propri figli, in cui nessuno mente, senza far ricorso a metaforici bastoni e senza dover ribadire atteggiamenti educativi che rimarcano una distanza che puzza di antico, quando i tassi di alfabetizzazione erano ben diversi da quelli attuali e ai genitori si dava del “voi”.
Ma soprattutto vorrei fare una precisazione: non esiste il “genitore”, così come non esiste lo “studente”, così come non esiste il “docente” o qualsiasi altro essere che corrisponda perfettamente a definizioni di tipo così generico. I genitori sono molto diversi tra loro, così come lo sono gli studenti e gli stessi docenti. Mi sembrerebbe di fare un torto alla categoria di coloro che si sono riprodotti chiamandoli semplicemente “genitori” e dando a questa parola una connotazione negativa: difensori a spada tratta dei loro figli, qualsiasi cosa abbiano fatto.
I nostri ragazzi hanno picchiato un compagno di classe: non c’è nessun problema, sono cose che succedono! I nostri figlioli hanno preso un brutto voto: sarà stato l’insegnante troppo severo! La vox populi che descrive così la supposta psicologia della massa gelatinosa dei genitori, agglutinati nella difesa sindacale del figlio che va male a scuola o si comporta male, è una generalizzazione che non rende giustizia del fatto che i genitori sono cambiati e non sono più la massa di analfabeti dell’Ottocento, per i quali il maestro elementare, uno dei pochi alfabetizzati di tutto il paese, faceva parte delle della triade divina maestro-farmacista-medico, ai quali era dovuto un supremo rispetto, proprio per la condizione di inferiorità oggettiva nella quale si trovava la popolazione italiana, allora composta da una massa di contadini analfabeti.
Naturalmente trovo orribili tutti gli episodi in cui si sono verificate delle aggressioni fisiche agli insegnanti, ma non posso fare a meno di notare che succedono in genere in contesti che oggi vengono definiti di “povertà educativa”, caratterizzata appunto da una scarsa alfabetizzazione delle famiglie, nonché da fenomeni di vera e propria povertà economica.
Ma per un genitore colpevole di un reato gravissimo come l’aggressione fisica a un insegnante, punibile tra l’altro con gli strumenti giuridici già a nostra disposizione, ve ne sono milioni di assolutamente pacifici, che non progettano attacchi armati alle scuole, ma al massimo fanno qualche ricorso al provveditorato o al TAR, supportati da civilissimi avvocati che girano armati solo del codice civile.
Non solo, oggi un genitore può essere in grado di giudicare i livelli di apprendimento raggiunti dal figlio nel percorso scolastico, indipendentemente dalla valutazione che gli è stata comminata dai suoi insegnanti. So benissimo di sembrare presuntuosa ma non capisco per quale motivo non si possa considerare i genitori dotati del ben dell’intelletto e quindi capaci di dare un giudizio “indipendente” da quello del docente sul livello di apprendimento raggiunto dal figlio.
Faccio un esempio sempre sul caso di mio figlio: mi sembrava che i suoi temi alle elementari fossero sgangherati nella costruzione delle frasi, incapaci di seguire un ragionamento coerente nonché assolutamente privi di punteggiatura, nel senso che i punti e le virgole sembravano buttati a casaccio nel componimento. Molte delle sue difficoltà dipendevano secondo me dall’approccio didattico della maestra, che spingeva i suoi alunni a scrivere lunghi racconti fantastici, quando questi ultimi non sapevano neanche quando finiva una frase e avrebbe dovuto cominciare l’altra, separata magari da un segno di interpunzione (non parliamo delle subordinate, che si imparano a maneggiare quando si è più grandicelli).
Quando andavo a scuola io, negli anni ’60, facevamo i “pensierini” – soggetto, verbo, predicato – che ti insegnano a capire le strutture di base della grammatica, dalle quali ti puoi lentamente evolvere, fino ad imparare, per esempio, l’uso delle frasi subordinate. Ma anche se non sono un’idiota, sapevo di non poter mettere becco nella didattica – ai genitori non è data la possibilità di intervenire su un simile argomento, considerato di stretta pertinenza del corpo insegnante – anche se un giorno non ero proprio riuscita a trattenermi e mi ero lamentata con la maestra del fatto che mio figlio non sapesse usare la punteggiatura. Lei allora mi aveva risposto: “Abbiamo già fatto la lezione sulla punteggiatura e suo figlio scrive molto bene, anzi penso che da grande diventerà uno scrittore!”.
Ero rimasta basita: la maestra pensava che sulla punteggiatura si potesse fare UNA lezione e poi si chiudesse per sempre l’argomento, con una “x” di “fatto” su “punteggiatura”, dimenticandosi che un buon uso della punteggiatura è fondamentale per costruire delle frasi che abbiano un senso compiuto, proprio grazie alle pause rappresentate dalle interpunzioni, che riflettono le pause che utilizziamo per davvero quando parliamo. Nessuno capirebbe il significato del discorso di qualcuno che non si ferma mai quando parla, ma tira dritto senza interruzioni, limitandosi a prendere fiato (a casaccio) tra una sequenza di parole e quella successiva.
Il mio stupore di fronte alla risposta della maestra nasceva anche dal fatto che la sua valutazione sui temi sgangherati di mio figlio era sempre estremamente positiva, nonostante i punti e le virgole fossero seminati a caso nei testi incomprensibili che componeva. Si badi bene: non reclamavo un quattro nel tema di italiano, perché mio figlio “prendesse una bella lezione” e facesse meglio il prossimo tema. No, mi sarebbe solo piaciuto che la maestra avesse corretto insieme a lui i temi in questione, cercando di spiegargli quali erano i suoi errori nell’uso della punteggiatura. E poi magari sarebbe stato bello se la maestra l’avesse invitato a riscrivere il tema, cercando di mettere i punti alla fine delle frasi: non pretendevo che imparasse a usare le virgole, ma almeno i punti!
Ma non era successo nulla di quanto avevo desiderato: i bei voti avevano continuato a fioccare nei suoi approssimativi temi di italiano, corretti molto generosamente con una penna rosa che rilevava qua e là errori di ortografia ed effettivamente ogni tanto aggiungeva un punto. In un caso come questo, si potrebbe dire che la maestra era di “manica larga”, perché, soprattutto alle scuole primarie, gli insegnanti sanno che dare una buona valutazione agli studenti significa, sostanzialmente, dare una buona valutazione anche a loro stessi: “La mia classe va benissimo!”.
Il problema è che mio figlio non ha mai imparato a usare la punteggiatura e i rinforzi positivi della maestra – “diventerai uno scrittore!” – hanno avuto l’effetto opposto. Ovvero di “formare” un ragazzo che forse solo adesso, superati i vent’anni, sta cominciando a capire come usare i segni di interpunzione. Per fortuna, oggi può contare su ChatGPT per farsi correggere la punteggiatura, perché almeno siamo riusciti ad ottenere un risultato per il “futuro scrittore”: sa di non sapere.
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