Competenze e sinistra? Contro il facile gioco degli opposti estremismi
L’aspetto più paradossale dell’intervento di Antonio Vigilante sta nel fatto che esso esprime in modo esponenziale, probabilmente senza che l’autore se ne accorga, tutti i difetti argomentativi che egli vuole denunciare nello scritto di Galli della Loggia, e in generale in tutti coloro che da decenni conducono azione intellettuale critica nei confronti della «didattica per competenze».
Nel testo di Vigilante è assente qualsiasi argomentazione che possa consentire un serio confronto intellettuale: vi compaiono affermazioni e strategie retoriche di basso profilo, sempre indimostrate, distorsioni o per lo più semplificazioni di tesi attribuite agli interlocutori critici, incapacità di dare spessore concettuale a quanto si sostiene. Il tutto –e qui sta la gravità- per mere finalità, esplicitamente rivendicate, di speculazione politica, con addirittura la citazione del Partito le cui posizioni si intendono difendere.
La tesi principale dell’intervento consiste in una rozza semplificazione di un discorso –logoro ormai da decenni- sulla tesi degli opposti estremismi. I passaggi inferenziali del discorso di Vigilante sono i seguenti: Ernesto Galli della Loggia è intellettuale «acritico, conservatore, autoritario», in un crescendo quanto mai enfatico; scrive un testo contro il dominio pressocché totale nel mondo dell’istruzione della retorica delle competenze; gli intellettuali che si posizionano a sinistra del Partito democratico sono contro le competenze; di conseguenza, l’estremismo della sinistra radicale in realtà porta avanti un progetto culturale reazionario, una sorta di “rossobrunismo” intellettuale. Mentre il PD rimarrebbe su posizioni saldamente progressiste.
In realtà non viene spiegato perché la posizione intellettuale di Galli della Loggia corrisponderebbe, tenendo conto della complessività del suo lavoro, a un progetto reazionario. Provo a fare riferimento ad alcune prese di posizione dell’intellettuale, che io giudico inaccettabili sul piano storico-politico: una difesa militante del mondo occidentale, che nega il carattere distruttivo dell’imperialismo e del colonialismo; la posizione sull’emigrazione esposta in occasione della recensione dell’ultimo libro di Raffaele Simone; la posizione favorevole a Guaidò sul Venezuela; un sostegno alle riforme elettorali e costituzionali finalizzate a ridurre gli spazi di rappresentatività democratica; il sostegno al TAV. Direi che tutti questi punti coincidono con le opinioni della maggior parte del gruppo dirigente del PD, che ritengo non giudichi affatto Ernesto Galli della Loggia un “reazionario”, bensì un liberale moderato. In virtù invece di una sola parziale coincidenza con la “critica delle competenze”, Vigilante sostiene un’inesistente connivenza ideologica tra la sinistra radicale e la Destra politica. Se devo dire la verità, a me scandalizza maggiormente la convergenza dei vertici del PD con le altre posizioni sopra ricordate.
Altrettanto estranea a un’impostazione dettata da un minimo di senso critico è il ragionamento, proposto all’inizio dell’articolo, sulla pedagogia. Una scienza nobile, per tradizione sviluppatasi in profonda relazione con lo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico. Ma la pedagogia è cosa ben diversa dal “pedagogismo”, ovvero la riduzione tecnocratica delle riflessioni sull’educazione, per lo più sulla base di teorie provenienti dalle ricerche comportamentistiche e cognitivistiche, autoproclamatesi le uniche scientificamente validate e capaci, in modo quasi automatico se non “pavloviano”, di assicurare la corrispondenza certa tra azione educativa e risultati attesi. Su questa pretesa, affermata con assoluta indifferenza della logica inferenziale, si sono negli anni sollevate ragionevoli e fondate critiche (Giulio Ferroni, Lucio Russo, e molte altre, la cui auctoritas non è certamente inferiore rispetto ad altre citate da Vigilante e Raimo). La retorica pedagogistica si distingue per prescindere da ogni teoria potenzialmente falsificante, per le autocelebrazioni narcisistiche, proclamate senza attendere il parere di una valutazione scientifica neutrale rispetto al proprio campo di ricerca. Questo ruolo conferisce ai pedagogisti il diritto, in quanto scienziati dell’educazione, di imporre ai docenti, in modo imperativo, il modo in cui devono lavorare, con terminologie diversificate ma sempre più inquietanti (resettare, formare, accompagnare); sostanzialmente umiliarli, come scrive Giroux.
E’ questo il terreno del confronto, o meglio di scontro (vista l’autoreferenzialità dell’interlocutore) tra i critici e i sostenitori delle competenze; con i primi che fanno notare le pesanti implicazioni di ordine culturale che ne derivano per il Paese. Parlare di «pedagogia» in senso generico, come fa Vigilante, facendo finta che la distinzione sopra richiamata non esista, significa svuotare l’argomentazione di qualsiasi autorevolezza. Ma si sa, quando l’obiettivo è manifestamente ideologico-politico, e non teso al franco confronto intellettuale, la prima regola è proprio quella di svuotare di qualsiasi concretezza il proprio riferimento concettuale, per poter proporre improbabili accostamenti o contrapposizioni; presentando quindi come dato scontato ciò che non lo è.
E’ interessante notare come Vigilante si scandalizzi per il fatto che Ernesto Galli della Loggia vorrebbe impedire alla pedagogia di occuparsi di scuola, mentre ignora o non si turba affatto per l’attacco a cui è sottoposto l’art.33 della Costituzione, che garantisce agli insegnanti la responsabilità in merito alla comunicazione e alla strategia didattica. Per giustificare questa negazione ai docenti del loro specifico professionale, e per assegnare ai pedagogisti esterni alla scuola il compito di elaborare le teorie didattiche, egli segue una strategia consueta: sparare a zero sugli insegnanti e la loro qualità professionale («Ma proprio questa straordinaria capacità di resistere al cambiamento neutralizzando qualsiasi novità ha fatto sì che la scuola italiana sia rimasta drammaticamente uguale a sé stessa nel corso dei decenni»…«Al centro della scuola resta la penosa routine lezione-manuale-studio a casa.»). La stessa retorica presente nei documenti del MIUR, che prelude di fatto alla stretta autoritaria, per esempio all’obbligo formativo fondato su tutto tranne che sulle discipline.
Quando poi, verso la fine dell’articolo, Vigilante definisce la competenza come «saper fare», ignora che persino l’apologetico volume sulle competenze curato dalla Fondazione Agnelli ha ammesso la difficoltà nel definire il concetto, in nome della sua polisemicità; semplice scusa per non rendere ragione della pluralità contraddittoria e sempre mutante delle definizioni proposte da vent’anni a questa parte. Affermare che «il sapere critico è competenza», quando poi si è incapaci di praticarlo è un altro tratto paradossale di questo articolo.
In ogni caso, sulla convergenza tra le tesi di critica delle competenze e alcuni esponenti intellettuali che possono riconoscersi nella destra politica, ci si è interrogati con onestà negli anni, consapevoli che eventuali concordanze, a una corretta analisi intellettuale, non sarebbero bastate per dare adito a banalissime strumentalizzazioni politiche. In realtà, il fenomeno non è così difficile da spiegare: da tempo parte della cultura liberale o addirittura neo-liberista ha compreso che la perdita di qualità della scuola, sulla base delle pseudo innovazioni introdotte in anni recenti, sono controproducenti anche in relazione agli obiettivi di competitività che essa ritiene di dover raggiungere. Che la scuola delle competenze può dare origine a un paese dove i giovani sono destinati a trasformarsi in manodopera a basso costo scarsamente scolarizzata, relegando l’Italia a un ruolo tutto sommato marginale nella divisione internazionale del mercato del lavoro. Da qui la posizione, sicuramente contraddittoria, che porta a criticare un determinato modello di scuola, senza coglierne le ragioni sistemiche che lo producono. Il che conduce a volte a cogliere in modo lucido dei problemi (Galli della Loggia fu l’unico a criticare con il giusto sdegno la ridicola organizzazione dei nuovi concorsi), senza peraltro ricavarne a mio parere le necessarie conclusioni sul piano politico.
Un altro punto, teoreticamente importante, ma ancora una volta utilizzato in modo deprimente per finalità ideologiche, è il riferimento a Don Milani e a Tullio De Mauro; e questa osservazione coinvolge, però, anche la recensione di Cristian Raimo. Per quanto riguarda don Milani, la sua indubbia importanza storica non può mettere tra parentesi alcune problematiche derivanti dalla sua esperienza, in parte anche impreviste. D’altronde, la possibile derivazione dell’attuale «didattica per competenze» dalla tradizione della «pedagogia democratica» degli anni Settanta era già stata trattata nel lontano 1997 da uno studioso indubbiamente progressista come Giulio Ferroni. Se, come afferma Cristian Raimo, non si può discutere su don Milani senza essersi confrontati con lo studio di Vanessa Roghi, si dovrebbe però estendere questa operazione di conoscenza anche a Didattica minima” di Mino Conte, che su Don Milani presenta valutazioni magari opinabili, ma con cui è doveroso fare i conti, per non cadere nella mitizzazione.
Un discorso analogo può valere per Tullio De Mauro. Cristian Raimo tende a volte a utilizzare espressioni celebrative spesso condivisibili verso queste figure intellettuali, con un tono però che sembra gettare discredito su chi avanzasse nei loro confronti delle riserve, magari su aspetti collaterali rispetto al campo specifico della loro esperienza. Che Tullio De Mauro sia stato «uno dei più grandi intellettuali del Novecento italiano» è indubbio; anche per chi scrive la lettura de La Storia linguistica dell’Italia repubblicana è stata un’esperienza formativa fondamentale. Ma questo non impedisce, senza nulla togliere ai suoi meriti intellettuali, di giudicare l’esperienza di de Mauro quale ministro della Pubblica istruzione quanto meno discutibile e affermare che lo studioso abbia fatto propria un’idea della comunicazione didattica piuttosto impropria.
Per fare un esempio concreto, nell’introduzione al volume dedicato alla Flipped classroom di Maurizio Maglioni e Fabio Biscaro, che quanto a rigore argomentativo e mancanza di concreti riferimenti fa aperta concorrenza all’articolo che andiamo commentando, l’elogio pronunciato dal linguista lasciò quanto meno perplessi. In particolare l’affermazione, ivi contenuta, che gli insegnanti non potevano competere con la concorrenza di un Piero o Alberto Angela; il che denota una scarsa cognizione del concreto lavoro didattico in classe e della particolare modalità comunicativa che si stabilisce tra docenti e alunni.
Peraltro Maglioni, in un recente intervento, è giunto a sostenere che le ragioni della didattica “innovativa” (in questo caso la Flipped Classroom) sarebbero condivise niente meno che dal 100% della letteratura pedagogica. Un’affermazione priva di qualsiasi riferimento al principio di realtà; peraltro, nel suo volume sopra citato, i riferimenti a testi di pedagogia sono minimi, mentre si dà credito, quale autorità educativa, a Rupert Murdoch o ad agenzie private statunitensi pesantemente interessate a introdursi nel mondo dell’istruzione.
Ho voluto fare questa digressione anche per sottolineare alcuni elementi di debolezza della stessa recensione di Raimo, cui Vigilante si richiama. Al di là dell’eventuale mancanza di rigore delle affermazioni di Ernesto Galli della Loggia, l’idea che l’attuale pedagogismo –quello tenuto in esclusivo riferimento dagli esperti ministeriali, nonostante non rappresenti affatto il 100% della letteratura pedagogica- sia una pseudo scienza mi sembra francamente poco contestabile. Dalle argomentazioni di Raimo sembra invece che, per il fatto che della Loggia non argomenta con opportuni riferimenti quanto sostiene, la stessa tesi dell’infondatezza epistemologica del pedagogismo sarebbe di per sé delegittimata.
Ma soprattutto è un altro il fenomeno che stupisce: in questi anni, successivamente. all’approvazione della Legge 107, sono usciti diversi documenti pubblicati dal MIUR (sulla Formazione obbligatoria, il Piano Nazionale Scuola Digitale, gli Orientamenti per l’insegnamento della filosofia nella società della conoscenza, lo Sviluppo professionale e qualità della formazione in servizio) completamente lesivi dei principi costituzionali, finalizzati a istituire nelle scuole una struttura gerarchica di comando che renderebbe ricattabile qualsiasi docente, e a depotenziare le discipline di qualsiasi contributo critico e formativo. Un progetto che riduce di fatto gli spazi di confronto democratico sia all’interno della scuola sia in riferimento agli stessi contenuti trasmessi. E che costituirebbero un pericolo per la tenuta democratica dell’intero paese.
Possibile che in questi anni non si sia prestata la necessaria attenzione per una critica radicale di tali documenti, svelandone il progetto distopico, mentre si riserva eccessiva verve polemica per un testo d’opinione, per quanto discutibile, destinato ad avere un impatto decisamente minore sulla scuola nel suo complesso? Offrendo così il destro ad interventi pretestuosi e strumentali come quello di Vigilante?
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