Scuola
L’autonomia scolastica: una occasione sprecata
12 Marzo 2019
Quando si pensa alla situazione in cui versa oggi la scuola pubblica è facile constatare che da 20 anni le cose vanno sempre peggio. La scuola non è più in grado di rimuovere le disuguaglianze, promuovere la crescita degli individui, preparare adeguatamente gli studenti. Non è la scuola frequentata bensì la famiglia di origine a determinare la possibilità di riuscita di un giovane. Sembra di essere tornati alla scuola degli anni ’50. Per non parlare di come sono considerati, e trattati, gli insegnanti.
Tuttavia un conto è constatare un andamento oggettivo, altra cosa è individuarne le cause.
Da questo punto di vista in molti commettiamo un errore: attribuiamo tutta la colpa della situazione alle leggi sull’autonomia scolastica (la Bassanini, legge 59 del 1997 e il DPR 275 del 1999, che della prima ne era il decreto attuativo).
In realtà, è la tesi di questo mio intervento, le cose sono diverse: la scuola di fine anni ’90 si reggeva su un impianto che era già in crisi e non rispondeva più al dettato Costituzionale. L’autonomia fu il tentativo di reagire alla situazione ma è fallita sia perché i docenti in primis non ne hanno colto la portata sia, soprattutto, perché è prevalsa una ideologia iperliberista che ha stravolto l’Italia e con essa la scuola, impoverendola e trasformandola in quella che conosciamo oggi. Non so dire cosa sarebbe successo se non ci fosse stata la Bassanini. Probabilmente saremmo nella stessa situazione: probabilmente ci sarebbe stata Moratti che avrebbe fatto esattamente le cose che ha fatto nel 2003, probabilmente Tremonti e Gelmini nel 2010 avrebbero tagliato miliardi di euro alla scuola e decine di migliaia di posti di lavoro.
Quello che è accaduto c’entra poco con l’autonomia. Se una colpa possiamo dare a quel periodo è stato l’aver accettato una resa culturale al neoliberismo, e questo non solo nella scuola, ma nella società intera: diritti del lavoro, sanità, trasporti, privatizzazioni di servizi strategici ed essenziali.
Adesso vediamo di dimostrare quanto ho detto.
Occorre innanzitutto comprendere cos’era l’autonomia, cosa doveva essere e cos’è diventata. E’ da quella fase storica che deve ripartire il nostro pensare la politica scolastica.
Negli anni ‘70 e ‘80 era stato messo in discussione l’impianto della scuola Gentiliana che, pur con tutti i meriti che le vanno indubbiamente riconosciuti, soprattutto sul piano della qualità e del rigore dell’insegnamento, non era adatta alla scolarizzazione di massa quanto piuttosto per riprodurre divisioni di classe già presenti nella società.
La scuola che usciva dagli anni ‘80, per quanto migliore di quella odierna, era indubbiamente invecchiata rispetto alla capacità di affrontare le sfide che un mondo in rapido cambiamento le avrebbe messo davanti. Non avrebbe retto all’offensiva neoliberista che di lì a poco avrebbe investito l’Europa.
Fu questa la motivazione del tentativo di riformare la scuola compiuto dai ministri del centrosinistra sul finire degli anni ‘90.
La legge Bassanini del ‘97, numero 59, introduceva, con l’articolo 21, l’autonomia scolastica.
Vale la pena di riportarne i punti salienti, anche per evitare di parlare di una legge che tutti citano ma che magari non tutti hanno letto
1. (…). Ai fini della realizzazione della autonomia delle istituzioni scolastiche le funzioni dell’Amministrazione centrale e periferica della pubblica istruzione (…) sono progressivamente attribuite alle istituzioni scolastiche (…) 5. La dotazione finanziaria essenziale delle istituzioni scolastiche già in possesso di personalità giuridica e di quelle che l’acquistano ai sensi del comma 4 è costituita dall’assegnazione dello Stato per il funzionamento amministrativo e didattico, che si suddivide in assegnazione ordinaria e assegnazione perequativa. Tale dotazione finanziaria è attribuita senza altro vincolo di destinazione che quello dell’utilizzazione prioritaria per lo svolgimento delle attività di istruzione, (…). 7. Le istituzioni scolastiche (…) hanno autonomia organizzativa e didattica, nel rispetto degli obiettivi del sistema nazionale di istruzione e degli standard di livello nazionale. 8. L’autonomia organizzativa è finalizzata alla realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, alla integrazione e al miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, all’introduzione di tecnologie innovative e al coordinamento con il contesto territoriale. Essa si esplica liberamente, anche mediante superamento dei vincoli in materia di unità oraria della lezione, dell’unitarietà del gruppo classe e delle modalità di organizzazione e impiego dei docenti, secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche, materiali e temporali, fermi restando i giorni di attività didattica annuale previsti a livello nazionale, la distribuzione dell’attività didattica in non meno di cinque giorni settimanali, il rispetto dei complessivi obblighi annuali di servizio dei docenti previsti dai contratti collettivi che possono essere assolti invece che in cinque giorni settimanali anche sulla base di un’apposita programmazione plurisettimanale. 9. L’autonomia didattica è finalizzata al perseguimento degli obiettivi generali del sistema nazionale di istruzione, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa da parte delle famiglie e del diritto ad apprendere. Essa si sostanzia nella scelta libera e programmata di metodologie, strumenti, organizzazione e tempi di insegnamento, da adottare nel rispetto della possibile pluralità di opzioni metodologiche, e in ogni iniziativa che sia espressione di libertà progettuale, compresa l’eventuale offerta di insegnamenti opzionali, facoltativi o aggiuntivi e nel rispetto delle esigenze formative degli studenti. A tal fine, sulla base di quanto disposto dall’articolo 1, comma 71, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, sono definiti criteri per la determinazione degli organici funzionali di istituto, (…) 10. Nell’esercizio dell’autonomia organizzativa e didattica le istituzioni scolastiche realizzano, sia singolarmente che in forme consorziate, ampliamenti dell’offerta formativa che prevedano anche percorsi formativi per gli adulti, iniziative di prevenzione dell’abbandono e della dispersione scolastica, iniziative di utilizzazione delle strutture e delle tecnologie anche in orari extrascolastici e a fini di raccordo con il mondo del lavoro, iniziative di partecipazione a programmi nazionali, regionali o comunitari e, nell’ambito di accordi tra le regioni e l’amministrazione scolastica, percorsi integrati tra diversi sistemi formativi. Le istituzioni scolastiche autonome hanno anche autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo nei limiti del proficuo esercizio dell’autonomia didattica e organizzativa.Leggendo l’articolo 21 si coglie l’eco delle lotte degli anni ‘70: c’è l’idea della Scuola costituita da tante realtà autonome che collaborano per portare l’istruzione in tutte le zone del paese, ciascuna con le proprie peculiarità. Si parla di apertura al territorio, di scuola per gli adulti, di organico funzionale… Tutte conquiste che derivano dagli anni ’60 e ’70, gli anni in cui la Scuola Italiana, pur con molte contraddizioni, è diventata “scuola di massa” ed ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo del Paese e alla crescita non solo economica ma anche civile, sociale, politico di questa nostra Italia. Ricordiamoci quegli anni: le sperimentazioni di modelli e indirizzi nuovi, i progetti assistiti, i lavori della Commissione Brocca… si stava cercando una strada per rilanciare la Scuola Italiana, e un ottimo lavoro si era già fatto con la scuola Media (la legge 1859 del 1962), con la scuola elementare (legge 820 del 1971) e, in generale, con i decreti delegati ( DPR 416, 417, 418, 418, 420 del 1974), poi confluiti nel testo unico del 1994. La legge sull’autonomia non nasce con l’idea di scuole autonome in competizione per accaparrarsi risorse scarse, al cui interno operano docenti in competizione per pochi euro di mancetta dal dirigente, come invece è poi accaduto. In particolare al comma 5 dell’articolo 21 è detto chiaramente che i soldi per far funzionare la scuola li deve fornire lo stato. I tagli alla scuola non li ha fatti Bassanini, né Berlinguer, ma quelli che sono venuti dopo di lui, in particolare Moratti, Gelmini e Tremonti e, se escludiamo l’assunzione di massa dei precari storici che l’Unione Europea gli ha imposto, direi che li ha fatti anche Renzi. Cosa è accaduto? Per capirlo esaminiamo il quadro storico. In quegli anni era già in atto una offensiva contro tutto il nostro modello di welfare. Lo slogan in voga negli anni ‘90, dopo la caduta del muro di Berlino, era “meno stato, più mercato”. La scuola pubblica, di qualità e per tutti, costava troppo e non era funzionale alle logiche che si andavano affermando. La logica dei tagli dilagava a livello europeo in tutti i settori: l’idea che i mercati fossero neutrali e occorresse adeguarvisi, la rinuncia della politica a svolgere il proprio ruolo perequativo… Tutto questo ha avuto un effetto pesante anche sulla scuola, che ha finito per essere percepita come un inutile costo. Ciò ha portato a tagli drastici al bilancio della Pubblica Istruzione e a far dipendere il finanziamento delle scuole sempre più da fonti esterne (che, invece, erano considerate marginali nel comma 6 dell’articolo 21). Questo ha aumentato il peso di finanziamenti esterni, costringendo le scuole a partecipare a progetti per reperire i soldi necessari alla stessa sopravvivenza, rendendola più burocratica, assorbendo risorse umane e introducendo elementi di insana competitività fra istituti e fra docenti stessi. In un contesto di risorse scarse l’autonomia ha finito per trasformarsi nella lotta per la sopravvivenza del più forte, le scuole sono diventate aziende, i docenti singoli individui in competizione per un premio del capo e, in ultimo, il Preside, da coordinatore della didattica della scuola, ha finito per diventare il “manager”, il cui scopo principale è reperire fondi, gestire il personale, accontentare gli “stakeholder” (soprattutto i genitori). Si rifletta, a questo proposito, a quanto dannosa sia stata per il sistema scolastico l’abolizione del “bacino territoriale di competenza”, con la conseguente lotta fra gli istituti superiori per accaparrarsi gli studenti delle scuole medie. La chiamano “orientamento” ma in realtà è l’applicazione del modello consumistico della società di mercato: le scuole come detersivi: ciascuno cerca di convincere il potenziale cliente della propria capacità di lavare “più bianco che più bianco non si può”. E’ di questo che si parla quando si parla di AZIENDALIZZAZIONE. Quella di oggi è la scuola della Confindustria, è la scuola della Fondazione Agnelli, non è la scuola di Bassanini, che DOVEVA essere finanziata dalla Stato.
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