Scienze

“Contro l’imperativo del sempre di più”: intervista a Lelio Demichelis

13 Ottobre 2023

Marx, Alienation and Techno-Capitalism, uscito per Palgrave Macmillan nel 2022 (Gruppo Springer), traduzione de La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo (2018), pubblicato da Jaca Book, affronta il tema del tecno-capitalismo, mettendone in luce rischi e pericoli e proponendo una strada altra per cessare di essere schiavi della macchina da noi stessi creata. Il tema viene sviluppato ulteriormente in un nuovo saggio dal titolo di La società-fabbrica, edito da Luiss University Press (2023).

Ne parliamo con l’autore, il Professore Lelio Demichelis.

 

Lelio Demichelis
Lelio Demichelis

 

Il termine-concetto “alienazione” ci rimanda a un tempo altro eppure, nel suo saggio, emerge chiaramente come sia in realtà una parola attuale e strettamente legata al tecno-capitalismo imperante nella nostra società.

Può spiegarci perché non possiamo fare a meno di adoperarla e in che senso è definibile come “grande”?

Alienazione significa molte cose. Marx scriveva che i lavoratori sono alienati perché non sono padroni dei mezzi di produzione, degli attrezzi che usano, delle merci che producono, del loro stesso lavoro. Diventano anzi forza-lavoro, che devono vendere in cambio di un salario. Così è stato per tutto il Novecento. Ma alienati lo siamo anche oggi, perché non siamo proprietari della rete e delle piattaforme; e anche i social – fingendosi strumenti di socialità e di socializzazione – sono imprese private che cercano di massimizzare il loro profitto attraverso  i dati che noi cediamo (è un lavoro anche questo, ma gratuito, quindi siamo doppiamente alienati). Alienati – sempre Marx – perché il mondo delle merci è divenuto un mondo autonomo dove la produzione e il consumo sono finalizzati non a soddisfare i bisogni umani ma quelli del plusvalore capitalistico e anche noi umani ci consideriamo come merci che si mettono in vetrina, oggi nella vetrina virtuale. E siamo alienati dalla realtà reale quanto più tempo passiamo in una realtà virtuale/artificiale. Ma soprattutto siamo alienati quanto più deleghiamo tutto (conoscenza, valutazione, decisione, informazione, relazioni) a un algoritmo e all’IA. Ma nessuno parla più di alienazione, come se fosse davvero scomparsa. In realtà, come scrivo nel libro, è solo ben mascherata dallo stesso sistema che la produce. Crediamo di avere il possesso dei mezzi di produzione perché usiamo un personal computer; perché il neoliberalismo ci vuole tutti imprenditori di noi stessi e/o start-upper e gli imprenditori non possono ovviamente essere o sentirsi alienati; perché l’industria del divertimento, della distrazione e dello spettacolo lavora a pieno regime e non ci lascia mai. E se la crisi climatica si aggrava sempre più, il sistema dice che dobbiamo essere resilienti, cioè adattarci, ma adattarci senza provare a cambiare le cose è un’altra forma di alienazione dal nostro dovere di responsabilità verso la biosfera e le future generazioni, ma anche dalla libertà individuale, perché un individuo che si deve solo adattare a ciò che esige il sistema allora non è mai libero. Gli illuministi e il marxismo, dai loro punti di vista, volevano cambiare il mondo in meglio. Oggi il mantra è invece: dobbiamo adattarci, e nessuno immagina più mondi diversi e migliori. Appunto, una grande alienazione

In che modo le figure mitologiche di Narciso, Pigmalione e Prometeo, menzionate anche nel sottotitolo del suo lavoro, possono essere accostate al tecno-capitalismo fino a diventare utili strumenti analitici per meglio leggerlo e interpretarlo?

Prometeo è colui che ruba il fuoco – cioè la tecnica – agli dèi per donarlo all’uomo. Che senza tecnica non sopravviverebbe infatti nell’ambiente e necessita di mezzi tecnici, dalla vanga all’aratro alle macchine. Il punto è che se ieri la tecnica era un mezzo creato dell’uomo per risolvere i suoi problemi, oggi l’accrescimento del sistema tecnico (e capitalistico) è diventato il fine della nostra stessa vita e i nostri dati servono per accrescere appunto la potenza del sistema tecnico, arrivando oggi a macchine che possono fare a meno dell’uomo, a una società totalmente amministrata, automatizzata e governata da algoritmi che non controlliamo in alcun modo (ancora l’alienazione…). Il nostro delirio prometeico di controllare tutto si rovescia in qualcosa, il tecno-capitalismo, che controlla e pianifica tutto di noi, ma anche contro di noi.

Poi Narciso – e non siamo forse tutti come Narcisi innamorati della nostra immagine (i selfie ne sono una delle forme quasi compulsive), non ci chiniamo verso lo schermo dello smartphone come Narciso verso l’acqua anche noi confondendo, come Narciso il reale dall’apparenza? E non siamo in una società della prestazione e dell’apparenza, dove dobbiamo essere belli, di successo, in una lotta sfiancante e iper-competitiva tra Narcisi capaci solo di monologhi e di solipsismi? E il nostro capitale umano non è forse solo una immagine riflessa (e distorta) di noi stessi di cui però dobbiamo innamorarci, valorizzandola sempre di più (a questo ci addestra il neoliberalismo) sul mercato? E poi Pigmalione: colui  che scolpisce una statua di donna bellissima, se ne innamora e chiede a Venere di darle vita vera e Venere esaudisce il suo desiderio e la statua prende vita e i due si sposeranno e genereranno Pafo. Sembra essere l’uomo prometeico che oggi dà vita agli artefatti tecnici, ai robot e all’intelligenza artificiale, mentre c’è invece una grande differenza, perché Pigmalione è artista che crea la sua opera d’arte e poi ha bisogno di una dea per farla vivente, ma dopo averla resa donna condivide con lei la sua vita; invece l’artista (falso) del tecno-capitalismo deve creare i suoi artefatti mai unici e sempre industriali, ma sempre creduti perfetti e intelligenti per poi distruggerli nel più breve tempo possibile, come le merci, perché possano essere prodotti e poi consumati altri artefatti e altre merci e generare altro profitto, obiettivo del tutto sconosciuto a Pigmalione. Piuttosto, è il tecno-capitalismo a crearci funzionali a sé, facendoci vivere come una macchina, facendoci sognare di generare vita attraverso le macchine, noi venendo in realtà prodotti e ingegnerizzati come vita morta messa al lavoro h 24 e sussunta nel sistema. Dovremmo allora uscire dall’illusione di essere artisti solo perché creiamo qualcosa con una stampante in 3D o generiamo un algoritmo.

Dall’antropocene al tecnocene, nel quale a prendere il sopravvento è il luogo della gabbia-caverna e dove la volontà di potenza ha sostituito, come lei stesso scrive, «il senso di responsabilità e di solidarietà e il concetto di limite».

Come si è giunti a tale condizione? Quali sono le conseguenze più pericolose di questo nuovo status quo?

È sempre il nostro sogno/delirio di onnipotenza e di possesso e di conquista e di sfruttamento (oggi anche verso lo spazio, e ancora una volta la scienza non cerca più la conoscenza ma solo le tecniche per sfruttare capitalisticamente ogni cosa). Su tutto, il nostro credere che le macchine di oggi (e anche IA e algoritmi sono macchine) siano come le macchine di ieri. Ma è falso. Le macchine di oggi possono fare a meno degli uomini (ancora l’IA) e sono dominate da un principio di convergenza, come scriveva il filosofo della tecnica Günther Anders, cioè le macchine si integrano e convergono tra loro in macchine sempre più grandi e sempre più integrate tra loro; non esistono più macchine singole come la mia vecchia Olivetti, ma appunto l’integrazione delle macchine tra loro e degli uomini con le macchine è la legge di tendenza del sistema tecnico. Non ci sono quasi più spazi di libertà per l’uomo – è rimasta solo la poesia – al di fuori del sistema tecnico e capitalistico, tutto deve essere integrato, connesso, sussunto nel sistema e sfruttato sempre di più. E se le macchine imparano da sole, se deleghiamo tutto alle macchine, se tutto potrà essere fatto con l’IA, allora sono le macchine, cioè la tecnica come razionalità in sé a modificare l’ambiente di vita dell’uomo. Quindi non siamo in quello che qualcuno ancora si ostina a chiamare antropocene (dove l’uomo modifica l’ambiente), neppure siamo solo nel capitalocene (il mondo governato e modificato dal capitale/capitalismo), ma appunto nel tecnocene, dove l’ambiente di vita dell’uomo è prodotto e modificato e sempre più artificializzato dalla tecnica. Appunto, a prescindere dall’uomo, dalla responsabilità, dal senso del limite, dalla precauzione per gli effetti domani delle scelte di oggi. Nessuna tecno-fobia da parte mia, attenzione, ma anche nessuna tecno-filia a prescindere da un doveroso pensiero critico; anche perché non è accettabile – se vogliamo definirci ancora democrazie – che vi sia un potere, quello della tecnica e del tecno-capitale, non controllato e bilanciato da un altro potere, in democrazia appunto quello del demos. E se siamo dentro alla gabbia/caverna platonica prodotta dal sistema – l’immagine invece della realtà, l’adattamento invece della libertà di scelta, l’artificiale invece del naturale, le competenze a fare invece della conoscenza per pensare criticamente – ci servirebbe allora, come per Platone, un filosofo capace di liberarsi, di uscire dalla caverna, di vedere la realtà vera e di tornare indietro a spiegarci che stiamo sbagliando tutto… A meno che… a meno che non sia un nostro desiderio inconscio quello di essere governati dalle macchine, dove però il rischio non è solo quello di essere sostituiti dalle macchine, ma di vivere e di pensare come delle macchine, rispondendo ai segnali dati dalle macchine, secondo le sequenze predefinite da un algoritmo (è già così nell’Industria 4.0). Per il filosofo sociale Max Horkheimer quello di diventare una società tutta automatizzata e amministrata da macchine era un pericolo gravissimo già mezzo secolo fa, da cercare in tutti i modi di evitare. E invece…

La Rete e i Social Network, che hanno contribuito a fomentare un’illusoria idea di libertà, sono certamente responsabili di avere ri-acutizzato fenomeni di omologazione (spacciata per uguaglianza) e di claustrofilia, rendendo del tutto attuale un film come Tempi moderni, che infatti lei cita, in cui l’uomo è in balia della macchina, da un punto di vista lavorativo ma non solo.

È possibile, secondo lei, rompere la bolla che ci siamo costruiti e tornare a una visione etica, consapevole e responsabile della società e di quello che ci circonda o il futuro prossimo sarà sempre più costituito da individui eterodiretti e scarsamente pensanti?

Sono e resto, nonostante tutto, un illuminista. Ho grande fiducia nella capacità dell’uomo di pensare ancora criticamente. Di immaginare come possibili mondi diversi e società diverse. Un uomo capace ancora di voler essere autonomo e davvero libero. Immanuel Kant scriveva del nostro dover uscire dal girello per bambini in cui ci tiene il potere, smettendola di cercare sempre qualcuno che pensi per noi, convinti che basti pagare per avere le risposte senza dover pensare. Oggi aspettiamo che le risposte ce le diano gli algoritmi, le app, l’IA che sono i nostri nuovi e tecnologici girelli per bambini. In più, come bambini, siamo feticisti del nuovo (oggi soprattutto tecnologico) e lo vogliano subito e facciamo i capricci come bambini pur di averlo – e su questo agiscono management e marketing, appunto i propagandisti di girelli. Senza noi capire che il nuovo è molto spesso simile al vecchio, che Amazon è il vecchio Postal Market cartaceo con in più un algoritmo; che l’Industria 4.0 è sempre il vecchio taylorismo, ma digitalizzato; che le piattaforme digitali sono la nuova forma della vecchia fabbrica, ma sempre fabbrica sono. La nostra caverna platonica – dove la finzione e l’artificiale sono credute la realtà – è questa bolla di ignoranza e di inconsapevolezza, di illusione e di feticismo, di falso narcisismo/pigmalionismo e di individualismo creduto libertario e insieme di depressione sociale e individuale, di rabbia e di rancore individuale e sociale, di pulsioni prestazionali e insieme nichilistiche specie nei giovani, di spettacolarizzazione di sé e di ogni cosa, di populismi/sovranismi/razzismi… E siamo diventati incapaci di dialogo con gli altri e di lungi-miranza… e questa bolla – che è una mega-filter bubble antropologica che seleziona e ingegnerizza  per noi i modi di essere e di avere e di vivere – si fa sempre più grande. Certo, poi ci sono i giovani dei Fridays for Future, i giovani cattolici a Lisbona per le Gmg, ci sono sempre più studenti in cui cresce un pensiero critico verso un mondo che li usa ma non li capisce e che soprattutto gli nega un futuro. Ci servirebbe sì e presto una nuova etica – una diversa e autentica razionalità – basata sul concetto di responsabilità e di limite – pensiamo ancora alla crisi climatica e ambientale – cambiando quindi il nostro modello scellerato di produzione e di consumo che impone l’imperativo del sempre di più. Ma nella bolla domina la non-etica della razionalità strumentale/calcolante-industriale, che è però quella che serve al sistema per funzionare, depressioni, rabbia, nichilismo, ecocidio e populismi compresi. E ci serve soprattutto recuperare la possibilità e la capacità – umane e non macchiniche – di immaginare e poi di costruire un mondo diverso.

Rileggendo il suo libro per questa intervista ho trovato che, dopo la pandemia, i suoi assunti siano oggi ancora più attuali, come se la realtà pandemica avesse in qualche modo reso evidente quello che lei, con una certa lungimiranza, aveva già scritto nel 2018.

Alla luce anche di un altro suo lavoro, La vita lucida. Un dialogo su potere, pandemia e liberazione (Jaca Book, 2021), scritto con Paolo Bartolini e prefato da Miguel Benasayag, quale pensa sia lo stato di salute della nostra società a seguito di lockdown, virus e cambi di paradigma?

La scrittrice indiana Arundhati Roi aveva scritto che dovevamo cogliere la pandemia come occasione imperdibile per attraversare il cancello tra un mondo e un altro. Potevamo cioè passarlo trascinandoci dietro i nostri pregiudizi, la nostra avidità, il nostro egoismo, i cieli fumosi; oppure immaginando un mondo diverso e lottando per averlo. E invece, il mantra imposto dal sistema è stato: tornare come prima della pandemia e magari più di prima della pandemia. E l’idea è piaciuta molto. Su questo ha pesato anche la psicologia umana: la pandemia aveva distrutto molte certezze e quindi per molti la pandemia doveva diventare il rimosso, una parentesi e non un cancello da varcare diversamente da prima. La bolla descritta sopra, il groviglio di crisi sociali ed esistenziali, anche la guerra in Ucraina, su tutto la crisi climatica sono l’effetto del nostro non voler cambiare, ovviamente con grade profitto per il sistema che certo non vuole cambiare e che ci ingegnerizza a questo scopo. E se ieri c’erano i No-Vax, oggi ci sono – ma molto più numerosi e spesso nei posti di potere, pensiamo a tutti i populismi/nazionalismi/trumpismi/fascismi – i No-Climat Change. Mentre il sistema inventa la parola resilienza, che significa di fatto adattamento alla – e non soluzione della – crisi climatica, accettata (fatta accettare) quindi come un dato di fatto, di cui farsene una ragione. Qualcuno ha scritto che ormai è più facile immaginare la fine della Terra che del capitalismo

È uscito da pochi mesi, sebbene sia già in ristampa, il volume La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering (Luiss, 2023), in cui lei riprende uno dei temi che definirei nodali nella sua ricerca: il parallelismo tra le dinamiche della fabbrica e quelle della nostra società capitalista occidentale, dove la rivoluzione digitale ha avuto e continua ad avere un impatto pervasivo e poco controllabile, anche per la velocità dei cambiamenti che induce. Alla luce di questo è indispensabile, come lei sta facendo da diversi anni, tornare sull’argomento, prendere coscienza delle continue modificazioni che apporta e provare a comprenderle.

Ha voglia di raccontarci, a questo proposito, cosa è accaduto negli ultimi vent’anni e se, a un certo punto, fosse stato possibile fare scelte diverse, interrompere o direzionare in altro modo il cambiamento?

Andrei un po’ più indietro nel tempo. Il punto di svolta sono gli anni ’70. Entrano in crisi i Trenta gloriosi – i trent’anni che partono dal 1945 e caratterizzati da alti tassi di crescita economica, di politiche economiche di ispirazione keynesiana, di sviluppo del welfare state, di lavoro come diritto, di redistribuzione crescente della ricchezza prodotta, di alfabetizzazione e di urbanizzazione – e inizia l’egemonia del neoliberalismo e del suo puntare sull’individualismo e sull’egoismo e sul narcisismo (la società non esiste, esistono solo gli individui, era lo slogan della neoliberista inglese Margaret Thatcher), de-strutturando tutte le precedenti forme di socializzazione umana (dai partiti ai sindacati alla società civile). Neoliberismo che ha come scopo dichiarato quello di trasformare la società e la democrazia in mercato, secondo il principio di concorrenza e l’homo politicus in homo oeconomicus; perché l’ideologia neoliberale dice: il mercato è tutto e tutto è mercato (compresa appunto la nostra vita, trasformata in dati, mentre la democrazia diventa un intralcio al libero mercato). Sempre Margaret Thatcher diceva poi che “Economics are the method. The object is to change the soul”, cioè cambiare l’anima della gente in senso economicistico; che ha infatti felicemente svenduto la sua anima e la sua libertà al mercato e alla concorrenza e all’ideologa neoliberista in cambio di quella che è solo una illusione di libertà individuale. Obiettivi della pianificazione neoliberale tutti raggiunti, mi sembra. A questo si sono aggiunte le tecnologie di rete – e anch’esse volevano e hanno trasformato “the soul”, facendoci credere che portassero libertà individuale, conoscenza e intelligenza, un lavoro immateriale e una vera democrazia dove uno vale uno. Tutto falso, siamo una società più ignorante, meno democratica (e si è inventato il termine di democratura), più illiberale, che rifugge dalla complessità e dal pensiero critico, senza senso di responsabilità ma molto edonistica e narcisistica,  che crede alla esattezza degli algoritmi e vive in quello che è stato chiamato capitalismo della sorveglianza. Un digitale che, tra le altre cose ha permesso di esternalizzare la struttura della fabbrica, di delocalizzare, di flessibilizzare e precarizzare il lavoro individualizzandolo sempre più ma anche integrandolo in un sistema sempre di fabbrica, sempre organizzato come una fabbrica (divisione del lavoro e poi connessione delle parti, uomini compresi, prima suddivise), sempre controllato come in una fabbrica. Sì, l’intera società è sempre più una fabbrica – la società-fabbrica, appunto – dove ciascuno di noi è forza-lavoro per il tecno-capitale quando produciamo, consumiamo e generiamo dati – e sempre di più, cioè a produttività crescente. Non per soddisfare i nostri bisogni e desideri, ma quelli del capitale – come e più che ai tempi di Marx. Una società che crediamo post-industriale ma che in realtà non è mai stata così industrializzata come oggi, ma nella forma appunto della fabbrica. Ma la critica radicale che si trova ne La società-fabbrica è a quella che chiamo razionalità strumentale/calcolante-industriale e che riprendo e sviluppo dalla prima Scuola di Francoforte (ad esempio da Max Horkheimer). Una (ir)razionalità che è in realtà prima di capitalismo e di tecnica, ma li determina entrambi e sostiene loro logica di accrescimento illimitato: del mercato e del profitto, il primo; del sistema tecnico e del profitto, la seconda.

Quindi sostengo che la causa prima del disastro climatico (e sociale) oggi in crescendo è appunto in questa (ir)razionalità che è però diventata, ma lo è da tre secoli, dall’inizio della rivoluzione industriale, lo spirito del mondo, la nostra way of life, il nostro pensiero unico. Una razionalità totalmente irrazionale, se appunto produce crisi sociale e crisi ambientale; che però ha colonizzato/ingegnerizzato (per questo riprendo il concetto di human engineering) – via management e marketing e oggi social/digitale – la società intera, con l’obiettivo, appunto: “to change the soul”. Trasformandola appunto in una immensa fabbrica, di cui noi siamo in realtà solo la forza-lavoro, illusi però di poter essere “imprenditori di noi stessi” – ma come per l’alienazione, la realtà è ben mascherata dall’illusione. E che il problema fosse la fabbrica lo aveva capito la filosofa francese Simone Weil quando scriveva, nel 1934, criticando tutti i marxismi (perché anche Marx – positivista e industrialista come i capitalisti – sosteneva che il socialismo è la fabbrica meno il capitalismo) che “non è la proprietà dei mezzi di produzione a generare l’oppressione sociale [come appunto, sbagliando, credeva Marx], ma la fabbrica” e la sua forma/norma di organizzazione: fabbrica che poi è la sublimazione/realizzazione di quella razionalità strumentale/calcolante-industriale  che domina appunto il mondo da tre secoli a questa parte. Una fabbrica (con organizzazione, comando e controllo eteronomi), scriveva nei primi anni ’60 Raniero Panzieri, che per sua essenza “esce dalla fabbrica” e contamina di sé appunto l’intera società. Come si sta realizzando da tempo, ma sempre più negli ultimi quarant’anni con il digitale, quel mezzo di connessione che permette oggi di integrare i molti della forza-lavoro della società-fabbrica senza bisogno di chiuderli dentro a una fabbrica fisica. Una (ir)razionalità positivistica, che è stata uguale nell’occidente capitalistico come nell’Urss comunista di allora e nella Cina formalmente comunista di oggi.

Potevamo fare diversamente? Sì, se non ci fossimo lasciati appunto affascinare come bambini dai nuovi giocattoli tecnologici; se la rete fossa stata pubblica e non in mano a monopolisti privati; se avessimo guardato agli effetti dei processi di innovazione tecnologica del passato confrontandoli con quelli odierni; se avessimo ricordato che il calcolo non è tutto e che non sempre due più due fa quattro; che l’imprevedibile e anche l’errore sono qualcosa di positivo. Dimenticando – soprattutto – che la biosfera è la nostra casa comune. Che non possiamo sfruttare fino a che non sia stato consumato anche l’ultimo quintale di carbone – come scriveva più di cento anni fa Max Weber a proposito della sua definizione del capitalismo come di una gabbia d’acciaio. Ne va della nostra sopravvivenza.

Il Professore Carlo Galli, durante la presentazione del saggio presso la Casa della Cultura di Milano, tocca un punto importantissimo, quello legato al processo di soggettivazione, asserendo che «mentre il neo-capitalismo lavorava su soggettività che erano relativamente autonome e che dovevano essere disciplinate, piegate, oggi invece il tecno-capitalismo si produce le proprie soggettività adeguate, già dall’origine, a sé stesso».

In relazione specificamente all’individuo, quali sono le sue caratteristiche nell’epoca attuale? Siamo, senza esserne consapevoli, i sudditi vecchi di un totalitarismo nuovo?

Come ho detto, non sono tecno-fobo né tecno-filo – e la tecnologia, anche digitale, ha potenzialità straordinarie e utilissime. Cerco di esercitare un pensiero critico. Anche se mi rendo conto che è un esercizio sempre più raro. Il sistema ci vuole formattati come produttori, come consumatori e come generatori di dati. Un addestramento che inizia da giovanissimi con smartphone e videogiochi e prosegue per tutta la vita, nella scuola e fuori. Sempre più integrati e connessi al sistema della società-fabbrica. Ma integrare e sorvegliare tutto e tutti è un processo tipico di ogni totalitarismo. Ed è anche nell’essenza di quella che chiamo razionalità appunto strumentale (ad accrescere sempre di più il profitto privato e il sistema tecnico), calcolante (tutto si basa sul calcolo e sulla ricerca dell’esattezza, che però mai è sinonimo di giusto e di vero), e industriale (perché tutto è industrializzato, dalla produzione di merci allo spettacolo, dal consumo all’informazione, dalla scienza alla cultura, dall’agricoltura al riciclo – e la nostra vita compresa. E “to change the soul” cambiare l’anima della gente è l’obiettivo di ogni totalitarismo, per omologare/uniformare/standardizzare e per ingegnerizzare i comportamenti e renderli calcolabili, prevedibili e quindi sfruttabili. Ovvero, le nostre soggettività sono prodotte industrialmente – a questo servono appunto il management, il marketing e i social. Da soggetti che potevamo essere, almeno nelle premesse dell’Illuminismo, siamo diventati oggetti, merci, dati, nodi della rete. E totalitarismo significa: sistema tendente alla totalità – e oggi la totalità è quella del mercato, del sistema tecnico, del tecno-capitale, a cui non ci sono alternative; totalità in cui tutti i poteri sono concentrati in un unico partito, secondo la sua ideologia, con il partito che si sovrappone e si sussume allo Stato. Con una ideologia che era politica ieri (fascismo, nazismo, comunismo) e che oggi è invece economica e tecnica, cioè la razionalità strumentale/calcolante-industriale, che si sovrappone allo Stato e alla democrazia. Ma è un totalitarismo soft. Ben mascherato, di nuovo. Lo scriveva già nel 1964 anche il francofortese Herbert Marcuse nell’incipit del suo L’uomo a una dimensione: “Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico”. E tuttavia, nonostante questo, continuo caparbiamente a credere nell’uomo. Perché (ancora Marcuse) ragione (quella autentica, illuministica; non la s-ragione strumentale/calcolante-industriale) e libertà sono la stessa cosa. Ma lo abbiamo dimenticato. Dovremmo rottamare il tecno-capitalismo e costruire un’etica e una razionalità illuministica, responsabile e insieme ecologica e sociale. Difficile, certo – ma non impossibile. Non ci vantiamo forse di essere sapiens?

 

Casa della Cultura di Milano: Lelio Demichelis dialoga con Carlo Galli

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