Comunità terapeutiche: vivere o morire? (Luci e Tenebre…)

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5 Maggio 2021

Credo che si parli sempre troppo poco delle comunità terapeutiche per tossicodipendenti. Recentemente è andata in onda su Netflix una miniserie proprio sulla comunità di San Patrignano che ha evocato e ricordato, non solo gli scandali che i meno giovani rammenteranno, ma anche vecchie e nuove questioni circa un modello di cura che da sempre ha fatto discutere di sé.

Diciamocelo subito, il tossicomane visto in SanPa è un archetipo, un’immagine molto lontana nel tempo. Ce ne fossero, direbbero forse gli operatori di vecchia data delle comunità per tossicodipendenti: perché con loro sì (forse direbbero) si costruiva un percorso di crescita vero, basato su un lavoro su di sé, perfino spirituale (perfino politico), che portava dalla dipendenza alla liberazione. Ma oggi il tossicodipendente è cambiato, e questo lo sanno i professionisti delle comunità, che rispetto a “prima” hanno difronte un “molteplice”. E lo sanno coloro che lo hanno vissuto sulla propria pelle e vedono ormai con occhi diversi quel mondo tanto lontano.

SanPa, Luci e tenebre: è questo il sottotitolo completo della serie, ed è a questo che ho voluto rifarmi in questa riflessione, proprio prendendo spunto dalla dicotomia.  La serie ha messo in scena infatti una polarizzazione archetipica, giocata perlopiù sul piano della vita contro la morte, una narrazione retorica e fortemente simbolica. Ma ancor di più ha posto l’accento sul mandato incarnato da Muccioli di salvare le vite di centinaia di ragazzi tossicodipendenti, secondo una prassi ben precisa: l’amore giustifica i mezzi. Ricordo che il sistema coercitivo che emerge nel docu-film è strettamente connesso, nelle narrazioni dei partecipanti pro-SANPA, ad un’idea di amore per la vita che giustifica “clausure” forzate (quando il soggetto voleva andare via dalla comunità), spedizioni di “recupero” dei fuggitivi, la rigida struttura del metodo pedagogico.

Si può osservare anche come in questo discorso vi sia l’idea di una vita elevata a bene supremo, come un’entità da tutelare che la persona lo voglia o no (perché non gli appariente) -; in questo discorso come in uno sfondo immutabile (…) emerge implicita un’altra visione data per scontata della vita tipica della modernità, una vita autonoma che pulsa perché “deve” vivere come volontà pura e priva di direzione e senso – “un’astrazione della vita”  quale eredità del paradigma metafisico da Darwin in poi. [1]

Ma partiamo da un punto del ragionamento che cerca di intersecare azioni, regole e sistemi simbolici: cioè caliamoci nel mondo sociale (oserei dire: reale). Partiamo proprio dal riferimento simbolico per eccellenza, quindi dall’amore. Cos’è l’amore? E di che tipo di amore si è sentito parlare in SANPA? Cos’è quest’amore che aiuta a salvare dalla tossicodipendenza?

Il sociologo Luc Boltanski per parlare dell’amore come azione sociale postula innanzitutto il fatto che le persone sono costantemente immerse in diversi «regimi d’azione», che egli suddivide in «regimi di disputa» e «regimi di pace». Possiamo interpretare la parola “regime” dimenticandoci dei totalitarismi, ma mantenendo la dimensione del potere. Regime infatti è qui inteso come quel “senso del vero” che si ha “intorno” e “dentro” di sé, in cui si inscrivono i significati delle nostre e altrui azioni. In questo modo il regime assume la definizione di “contesto di vita” e mette l’accento sul fatto che esso possiede già questi significati, le regole, che assumiamo e utilizziamo soggettivamente per formare il senso delle azioni, ricevute o agite.

Nello «stato di pace», per l’autore, le persone rinunciano alla “messa in equivalenza” delle loro azioni reciproche – cioè al calcolo di ciò che fanno e ciò che ricevono – e donano più di quanto il momento esiga dalla situazione: per il sociologo francese comportarsi in questo modo significherebbe agire nell’amore, in modo “agapico”.[2]

L’agape ha una matrice cristiana. L’agape designa l’amore di Dio per gli uomini, e per estensione l’amore degli uomini verso altri uomini: amore verso il prossimo, il quale non è l’altro vicino socialmente o fisicamente, ma è l’individuo che si incontra sul proprio cammino.

A differenza di come accade nella teoria del Dono di Marcel Mauss [3], secondo Boltanski, il modo di agire agapico non curandosi del calcolo, non si cura della reciprocità: è concentrato nel presente e l’individuo si pone in uno stato di apertura totale verso l’altro. Il modello “puro” di azione agapica disattiva le attese di vedersi restituito ciò che si è donato. È un tipo di azione incurante del passato e del futuro, fa silenzio dei desideri, non crea anticipazioni nell’interazione. Ma, sottolinea sempre Boltanski, l’agape è anche un tipo di dono che, se non accettato, genera rifiuto, attrito, resistenza, stress e fuga da questo regime d’azione. In agape, o si accetta il coinvolgimento e si cede all’amore o si abbandona e si va via.

Già, si va via: quando si può andar via. Eppure l’abbiamo sentita la ragazza scappata dalla comunità, intercettata da Red Ronnie e raggiunta poi da Muccioli, dire: “non voglio tornare su”. E invece poi la ragazza segue Muccioli, e torna su, in comunità.

Che amore è un amore che non lascia spazio al rifiuto, alla libertà di andarsene? E inoltre: è davvero possibile disattivare le nostre valutazioni sui comportamenti dell’altro?

Che le caratteristiche dell’agape costituiscano il principale riferimento simbolico di quella narrazione incentrata sull’amore e ascoltata in SanPa – pur disarticolata nei sensi e nei significati soggettivi – è possibile e verosimile, e forse evidente. Ma bisogna fare un approfondimento: in generale – il metodo delle comunità per tossicodipendenti si basa storicamente sulla filosofia dell’auto mutuo aiuto. Un modello cioè solidaristico e altruistico di intendere la cura, che trasferisce nella residenzialità gli aspetti tipici dell’intervento degli alcolisti anonimi e prende forma in una struttura gerarchica: cioè coloro che sono più avanti nel programma si fanno carico di aiutare i nuovi entrati nel percorso riabilitativo. [3] L’aiuto in questo contesto si da’ secondo un circuito in cui c’è chi “è aiutato”e chi “si aiuta aiutando”[4]. È questo, infatti, il cosiddetto principio dell’Helper teorizzato da Riessman nella sua Helper Therapy. Il principio dell’Helper (da to help = aiutare) è elemento fondativo dei gruppi di auto mutuo aiuto, proprio per il fatto che descrive il potere terapeutico dei gruppi derivante dall’aiutarsi aiutando.[5]

Dal punto di vista dell’azione sociale (cioè ciò che si fa’: mettendo in conto aspettative, reazioni, significati che presumiamo “negli” altri) l’amore agapico – la gratuità, “rilanciata” in SanPa quale fondamento ideale del modello pedagogico – per il solo fatto che aiutando l’altro si sta aiutando se stessi, risulta “inquinato” fin da subito da una forma di tornaconto personale, da una previsione “egoistica” perché è esposto al calcolo fin dall’origine, quello di aiutarsi, appunto, aiutando.

Come ha scritto l’antropologo Jacques Godbout: L’universo del dono richiede l’implicito e il non detto. La magia del dono può operare soltanto se le sue regole restano inespresse. Non appena esse sono enunciate, la carrozza ridiventa una zucca, il re si rivela nudo e il dono equivalenza.

In altre parole nel Dono il non detto resta dicibile e non scompare come nella retorica della gratuità pura dell’agape, e tuttavia le sue regole restano (devono restare!) inespresse – pena la perdita di quel “senso di gratuità”. Se da un lato, dunque, nel muto aiuto gerarchico è presente l’aspetto egoistico di un tornaconto personale, dall’altro – e nel migliore dei casi – può rendersi operante quell’impegno a contraccambiare – tipico della logica del Dono (quello di Mauss per intenderci) – quanto si ha ricevuto quando si è stati “nuovi” di comunità – con “senso di gratuità”.

Porre l’accento sul Dono permette di visualizzare, nell’ambito di azioni altruistiche comunitarie, una spirale che dal primo “donatore” coinvolge tutti coloro che abbracciano la filosofia delle comunità, fa memoria, storia e “obbligazione” a contraccambiare.

I “legami sociali” si basano sulla “reciprocità” – che è l’altro nome dell’obbligazione – e sono “possibili” se i sistemi simbolici e le regole presuppongono (e regolano) tali possibilità. Per il noto filosofo Ludwig Wittgenstein, conoscere una regola non corrisponde a saperla formulare, piuttosto significa sapere andare avanti nei contesti in cui si trova [la regola]. E’ proprio quell’andare avanti che fa inferire la conoscenza implicita della regola attraverso la quale la pratica si riproduce e acquista significato.[6] Un’affermazione straordinaria e altrettanto “vera” se ci pensiamo. Noi in effetti quando viviamo nei contesti, non ci spieghiamo il perché ci comportiamo in un determinato modo, ma è come se fossimo “regolati” da significati impliciti che ci fanno comportare in modo che riteniamo adeguato a quel contesto. Ciò accade perché capiamo la regola, la mettiamo di fianco a noi e andiamo avanti; e se non l’abbiamo capita il contesto ci da comunque segnali che stiamo “smarginando”, e ci “raddrizza…”

Tornando al tema, dunque, se le regole del contesto si riferiscono a un senso generale di  “incuranza del passato e del futuro, silenzio dei desideri, non anticipazioni nell’interazione, avalutatividà delle azioni altrui, gratuità ” e così via,  la persona rischia di diventare “oggetto” da non osservare profondamente – come invece occorre nei luoghi di cura ed educativi. Nel caso specifico della comunità terapeutica vista in SanPa il tossicodipendente è reificato a “cenacolo di vita sacra” – da salvare – e il suo corpo – che si ribella – “carne scalpitante e da fermare” (se non da punire). Così la reciprocità muore, e con essa la possibilità trasformativa di Sé, che passa necessariamente attraverso percorsi che sono sia autonomi che guidati…

Alcuni sistemi simbolici (e di regole) insomma  sembrano “autorizzare” più di altri forme di relazione inevitabilmente asimmetriche, e tanto più i contesti saranno strutturati, chiusi e impostati rigidamente su ruoli e gerarchie, tanto più le azioni potranno sfociare nell’egoismo, nell’indifferenza dell’oggettivazione, al limite  in condotte violente e prive di senso di umanità.

L’amore agapico è un’evento, che può attivare cambiamento, spunta come una stella tra le nubi notturne, ti fa sentire importante quando non lo credevi più. Ma le nuvole e l’oscurità possono tornare, e occorre che la verità illumini la via nel “rischio” che l’autonomia e la libertà comportano.

 

Ps.

Ringrazio tutti coloro che vorranno condividere i loro suggerimenti e riflessioni.

Salvatore Picconi

[1] Tarizzo Davide, La vita, un’invenzione recente, 2010, Laterza

[2] Luc Boltanski, Stati di pace. Una sociologia dell’amore. Vita e Pensiero. Milano, 2005

[3] Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, 2002

[3] Leopoldo Grosso, Maurizio Coletti, La comunità terapeutica per persone tossicodipendenti, EGA-Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2011
[4] Martien Kooyman, La filosofia dell’auto-aiuto in comunità e il modello medico, in Mauro Palumbo, Mario Dondi, Claudio Torrignani, La comunità nella società delle dipendenze, Erikson, Trento, pp. 149-164
[5] Frank Riessman, The helper therapy principle, in Social Work, vol. 10, n. 2, Oxford University Press, 196

[6] Davide Sparti, Se un leone potesse parlare. Indagini sul comprendere e lo spiegare, Sansoni, 1992, Firenze.

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CAT: Scienze sociali, società

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