Che cosa (non) possiamo fare per fermare il virus

22 Dicembre 2021

Dove eravamo rimasti

Presto la pandemia sarebbe finita, pensammo in molti nel novembre 2020 mentre Pfizer annunciava il primo vaccino contro la Covid 19. Più che una previsione, una speranza. Come tale, si rivelò infondata.

Questi ultimi giorni stanno mostrando con forza quanto la normalità sia ancora lontana. Prima di tutto, chiariamo: non stiamo vivendo un’ondata di omicron, la nuova variante osservata per la prima volta in Sud Africa. Nel nostro paese il numero di infetti cresce dal 17 ottobre, con un andamento esponenziale che si discosta sempre più da quello parabolico. Siamo davanti a una recrudescenza della variante delta, prevalente in Italia nonostante il numero ridicolo di sequenziamenti, su cui si è innestata quella di omicron.

Anche occupazione in area medica, terapie intensive e morti salgono. Non di certo come nel 2020, quando piangevamo 800 morti al giorno. Ma l’andamento è crescente. Senza interventi, anche drastici, il numero di ospedalizzazioni e morti è destinato a salire, anche se i numeri saranno assai più contenuti rispetto ai picchi dell’inverno del 2020, grazie ai vaccini. Poiché non conosciamo, ad oggi, la prevalenza della variante omicron nel nostro paese, le misure da prendere risultano alla cieca: solo con Delta di sicuro puntare sulle terze dosi sarebbe l’intervento più sensato, con Omicron ancora non ci è dato sapere.

Ancora non abbiamo dati definitivi per valutare l’impatto della nuova variante. Nonostante ciò è possibile fare qualche considerazione.

La prima è che la variante è più contagiosa rispetto alla delta, a sua volta più contagiosa rispetto all’alpha e al ceppo originario. Per stimare la contagiosità, gli epidemiologi si affidano a un numero che è entrato ormai a far parte delle nostre vite: R0, erre con zero. Si tratta del numero di riproduzione di base, ovvero il numero di infetti che provoca un solo contagiato in media in una popolazione vergine. Qui vorrei chiarire, perché in questi due anni si è fatta confusione. Il parametro R0 indica la capacità di trasmissione in una popolazione vergine, quindi non toccata dal virus. Successivamente si parla di Rt, ovvero il numero di riproduzione. Quando sentiamo dire che R0 è sceso sotto uno, non ha senso: è Rt che è sceso sotto 1.

Perché questi valori sono così importanti? Nonostante non colgano la diffusione granulare del contagio- la diffusione è trainata da superspreader in virtù della distribuzione power law del grado, ovvero dei contatti- ci permetteno, almeno a livello teorico, di comprendere la dinamica del virus. Uno dei problemi principali che si affrontano quando si studia un modello epidemiologico è appunto stimare se il patogeno provocherà o meno un aumento dei contagi o se l’epidemia andrà calando. I risultati teorici ci dicono che se R0 è maggiore di 1- esistono virus di questo tipo?-, allora assisteremo a un aumento esponenziale degli infetti. Nella realtà dei nostri giorni, il discorso è pressoché identico, ma con Rt, per quello che dicevamo prima. Se Rt è maggiore di 1, allora l’epidemia sarà in una fase di espansione, altrimenti in retrazione. 

Non solo: ci dicono anche quanto veloce corre il contagio. E se l’andamento è come quello a cui stiamo assistendo in questi giorni, il rischio è si vada totalmente fuori controllo.

Il problema, poi, si sposta sugli ospedali. Un aumento marcato degli infetti porterebbe infatti a un collasso del sistema sanitario, quello che è avvenuto nel marzo del 2020 nelle regioni del nord. Questo collasso, che è il principale motivo per cui si fa il lockdown, avrebbe delle ripercussioni sull’intera popolazione: ospedali intasati ci porterebbero diretti verso il ‘700. 

La seconda notizia, che tengo a ribadire è ancora da confermare: omicron avrebbe minor letalità rispetto alla variante delta. Qui vi sono almeno due questioni da affrontare.

Un virus con il passare del tempo tende ad adattarsi all’ospite e quindi mutare in varianti più leggere? Ecco, no. Questa idea si basa su un’incomprensione piuttosto evidente della teoria evoluzionista che consideriamo ormai accettata, quella di Darwin, rasentando un’interpretazione alla Lamarck. 

L’esempio scolastico può venire in aiuto: le giraffe. Secondo la teoria di Lamarck l’evoluzione procede in modo attivo. Affinché le giraffe possano cibarsi, il loro collo si allungherà permettendo di raggiungere le foglie più in alto. Come i virus, quindi, muterebbero verso forme in grado di non uccidere l’ospite.

Non è questa, però, la teoria che accettiamo. La teoria di Darwin, nella sua bellezza, è composta da due elementi fondanti: il primo è che le mutazioni sono casuali. Gli errori di replicazione del materiale che trasporta i caratteri portano a mutazioni genotipiche che si manifestano poi sul fenotipo. Immaginate, ad esempio, quel gioco che si fa quando si è piccoli, il gioco del telefono. In fila, il primo dice una parola all’orecchio di quello di fianco a lui e così via fino all’ultimo: lo scopo è che la parola udita e scandita dall’ultimo sia uguale a quella del primo. Ovviamente, non succede quasi mai. Questo è come funziona l’evoluzione, nella prima parte: errori casuali di trascrizione.

Interviene poi un secondo aspetto, quello passivo: la pressione evolutiva. La natura tende a selezionare quelle forme che meglio si adattano all’ambiente.

La pressione evolutiva certamente aiuta da questo punto di vista: una variante in grado di non uccidere l’ospite ha, a parità di altri fattori, un vantaggio competitivo. Ovviamente la situazione è più complessa, se mi spingessi oltre rischierei di fare affermazioni non approssimative come qualunque scritto dedicato a un pubblico più ampio rispetto a una cerchia di esperti, ma false.

Ma attenzione: anche una variante che buca i vaccini avrebbe, ovviamente, un vantaggio competitivo. Tanto bene quanto male. 

Il secondo aspetto, ancora più importante: per quanto una variante più trasmissibile ma meno letale appaia come una buona notizia non lo è.

Vi sono due processi, nei modelli matematici per modellizzare un’epidemia: spontanei e binari. I primi, come la guarigione e la morte, sono, come indica il termine, spontanei. E quindi dipendono linearmente dai contagi. A un aumento di 100 contagi corrisponde una frazione in più di morti. Ma il contagio appartiene alla seconda categoria: nasce dall’interazione tra individui in una popolazione, è fortemente non lineare e almeno all’inizio procede esponenzialmente. A un aumento dei contagi, quindi, anche con una letalità inferiore potremmo assistere a maggior morti. Non solo: gli ospedali non sono infiniti. Il personale sanitario, davanti a un’ondata che travolge gli ospedali, non avrebbe né le forze né lo spazio per trattare adeguatamente chi si presenta in ospedale. Si tratta di un fattore indagato anche per la variante alpha come dimostra questo articolo della cara Martina Patone.

Il punto è: quanto è meno letale/aggressiva? Su questo ancora non ci si può pronunciare con certezza.

Che cosa abbiamo sbagliato? 

Come credo si sia compreso, la situazione non è affatto rosea, anche se diversa dal 2020, come è necessario ribadire. L’idea di trovare dei colpevoli non è mai allettante, ma in questo caso non ci si può sottrarre da una valutazione: i governi occidentali, soprattutto dopo l’arrivo dei vaccini, hanno sbagliato pressoché tutto. Assistiamo oggi a uno dei più grandi fallimenti di salute pubblica dell’epoca moderna, trainato da un’ideologia anti scientifica- non a livello dei no vax, ma un gradino sopra- che va sotto il nome di solo vax.

Poiché si tratta della realtà in cui viviamo, mi concentrerò sulla situazione italiana. Nel 2020 il governo Conte ha gestito la pandemia insufficientemente. Non tanto nella prima ondata, quando fummo i primi colpiti, ma nella seconda. Mentre ci trastullavamo nello sport nazionale- ritenerci superiori agli altri paesi- abbiamo perso tempo prezioso che avrebbe permesso, forse, di evitare restrizioni come quelle dell’inverno scorso e soprattutto di non piangere migliaia e migliaia di morti.

Ma il Governo Draghi non è esente da critiche, anzi.

In principio fu Gerli. Nelle nomine del nuovo CTS, spiccava quella di Gerli, famoso per il suo modello che rappresenta un caso di studio solo se si è interessati a vedere come l’overfitting possa produrre mostri. Salito alla ribalta nel 2020, affermando che dopo 17 giorni la pandemia fa quello che le pare, fu costretto a dimettersi sulla scia delle polemiche. Dichiarazioni dalla Presidenza del Consiglio: non pervenute.

 

Sorvolando su altre dichiarazioni che sinceramente sarebbe stato meglio evitare- la stoccata a Merler, la cui professionalità è stata messa in dubbio da persone che non sono in grado di contare senza far uso delle dita- il governo Draghi ha seguito una via Solo Vax, come si diceva prima, che poco si presta all’evidenza scientifica.

Chiariamo, una volta per tutte: i vaccini funzionano, sono efficaci nel prevenire la malattia grave e in parte anche l’infezione, rappresentano la nostra arma principale per uscire da questa situazione, ma da soli non bastano. Non significare essere no vax: significa essere consci della complessità del fenomeno.

Questa retorica solo vax ha portato a una fascinazione al limite del feticismo per un concetto più delicato di quanto non si pensi: l’immunità di gregge. A sentire i media, l’Italia ha raggiunto l’immunità di gregge almeno una quindicina di volte. Peccato solo che il virus non legga i quotidiani italiani- d’altronde, nemmeno gli italiani lo fanno, come biasimarlo?

Che cos’è l’immunità di gregge? Si tratta della soglia di persone immuni in grado di proteggere il “branco” dall’attacco di un agente patogeno come il virus. In quanto la teoria sottostante richiede matematica elementare, cercherò di spiegare.

Come detto in precedenza, R0 rappresenta il numero di riproduzione di base in una popolazione vergine o in un eventuale ritorno alla normalità. Quindi affinché vi sia immunità di gregge deve valere:

R0* S=1

Dove S rappresenta il pool di suscettibili. Poiché ci si è sottoposti a vaccinazione, una frazione dei suscettibili p è immune. Possiamo quindi riscrivere S come (1-p), ovvero la frazione di popolazione non immune.

R0*(1-p)=1

Quindi risolviamo per p, ottenendo, sotto certe condizioni che illustrerò tra un attimo, la soglia per l’immunità di gregge, ovvero la frazione p.

p= 1-1/R0

Questa stima è ovviamente grossolana. Si sta lavorando in modelli a mix omogeneo, che non tengono conto dell’eterogeneità dei contatti della popolazione. Ma non tiene conto di altre due caratteristiche: la prima è che i vaccini non sono sterilizzanti, ovvero che non proteggono al 100% dall’infezione; la seconda è che i virus, in natura, mutano e bisogna considerare la evolutionary rate.

Purtroppo ancora oggi assistiamo a discussioni sterili su variabili endogene ed esogene: queste categorie, forse utili in contesto economico, non servono sostanzialmente a nulla quando si passa in ambiente biologico, caratterizzato da evoluzione e mutazioni ben lontane dall’equilibrio, un artificio su cui si basa l’impianto economico mainstream che nel corso degli anni è stato ampliamente criticato, a partire da Schumpeter e arrivando fino ai giorni nostri.

Anche ammettendo la possibilità di un’immunità di gregge, nella pratica è una questione complessa: averlo considerato il silver bullet in grado di porre fine alla pandemia ha rappresentato un errore di comunicazione di non poco conto. 

A trainare la retorica solo vax vi è stato, ovviamente, il green pass. Si tratta di un tema delicato, ma vale la pena trattarlo. Le critiche che provengono da ambienti di estrema sinistra o estrema destra- come Freccero, Mattei o Lottieri- lasciano il tempo che trovano. Il green pass non è manifestazione del Leviatano sanitario o del C2, capitalismo comunismo di stampo cinese. Si tratta di uno strumento che, e qui si gioca tutto, va integrato con altre misure e che, una volta che la situazione peggiora, non basta affinché il contagio si fermi.

Purtroppo il governo Draghi ha scelto la strada opposta: riporre una fiducia cieca negli effetti del Green Pass, senza considerare interventi mirati quando la situazione si aggrava. Fa specie, in particolare, la decisione di far valere il Super Green Pass dopo due settimane dalla decisione: quando si osserva una pandemia, vediamo sempre il passato, per via del tempo di incubazione e dei ritardi diagnostici. Le misure vanno quindi prese con tempestività. Per concludere, il Green Pass, anche nella sua forma “super”, serve ed è uno strumento potente, ma da solo, come i vaccini, non basta.

Due aspetti aggiuntivi che meritano attenzione riguardano le scuole e lo smartworking.

Sulle scuole il governo Draghi ha scelto di imitare il suo predecessore, il governo Conte: non fare nulla. Se il Governo Conte decise di ampliare il significato di congiunto- i limiti del mio linguaggio sono i limiti del nostro mondo, non è vero?- il governo Draghi ha deciso di “aprire le finestre”. L’ottimismo è stato suffragato da uno studio scientifico, della statistica Sara Gandini e altri studiosi, nel quale si sosteneva- dati alla mano, più o meno- che le scuole non contribuiscono all’aumento degli infetti. Abbiamo criticato, come tanti altri, questo studio io e Lorenzo Ruffino su Youtrend chiarendo che la situazione sul fronte delle scuole è più complessa. Non si è fatto nulla per dotare le scuole di filtri HEPA, che invece sarebbero stati fondamentali.

Anche la tanto vituperata DaD non è da mettere nel cassetto: come dimostrano gli studi in merito a esserne più colpiti sono stati gli studenti provenienti da famiglie povere. Più che un problema intrinseco alla DaD, si tratta di un problema, ancora una volta, di disuguaglianze. Lo si capisce bene dalla distribuzione dei dispositivi tecnologici nel nostro paese.

Sullo smart working, decisione ovviamente voluta da Renato Brunetta, sarebbe meglio stendere un velo pietoso. Non vi sono studi che spingono per un ritorno in presenza della pubblica amministrazione. La decisione è semplicemente un favore ai proprietari di immobili dei centri, nonostante la letteratura economica abbia ormai compreso i rischi di un eccessivo depauperamento delle aree provinciali e montane- si pensi ad esempio al tema delle disuguaglianze o a quello dei good jobs. Di effetti sulla produttività, l’evidenza va contro la narrazione del ministro Brunetta: non si rimane sorpresi, questo è certo.

Infine, la revisione dei parametri per le famose zone: bianca, gialla, arancione, rossa. Il governo Draghi in estate ha rivisto i parametri, legando l’ingresso in una certa zona alla situazione ospedaliera. Stiamo vedendo in questi giorni i trucchetti escogitati dalle regioni per far materializzare posti letto.

Ma anche supponendo la buonafede delle regioni, non si capisce il perché di questa decisione. Come detto prima, vediamo i contagi in ritardo e ancora più in ritardo ospedalizzazioni e terapie intensive. Per evitare che le terapie intensive si riempiano, basta agire sui contagi. Di certo coi vaccini il legame tra ospedalizzazioni e contagi si è indebolito, ma allora si poteva agire sui contagi, aumentando i valori dell’incidenza, non di certo sugli ospedali.

Si potrebbe, infine, sottolineare il ritardo sulla necessità di una terza dose. Già dalla fine dell’estate, con i dati di Israele, si sapeva che il calo dell’efficacia dei vaccini avrebbe comportato una dose aggiuntiva, detta booster. Senza la comunicazione necessaria alla popolazione, si è arrivati in ritardo e in ordine sparso.

Che cosa possiamo fare, allora? 

Niente, accetteremo i morti. Lo stiamo già facendo, avendo ormai superato la soglia psicologica dei cento al giorno. Questa, sia chiaro, non è una valutazione morale. Penso sia ben chiara la mia posizione sul tema ed eviterò di ribadire avendo già ricevuto nei giorni scorsi accuse e offese sui social.

Se non facciamo nulla, d’altronde, le ondate passano. Questa è una verità compresa ormai cento anni fa, nei primi modelli di diffusione delle malattie infettive. Qua sotto vi è una rappresentazione grafica del modello SIR. Si tratta del modello principale, insieme al SIS, che funziona come benchmark per le discussioni soprattutto a livello più divulgativo- ovviamente vi sono modelli più complessi, che prendono in considerazione eterogeneità e struttura della popolazione, sia con dinamica vitale sia su network ma la discussione sarebbe incomprensibile essendo questioni estremamente tecniche.

Prendiamo una popolazione di N persone, abbastanza ampia da togliere di mezzo fluttuazioni stocastiche. Dividiamo la popolazione in tre compartimenti: in questo caso Suscettibili, Infetti, Rimossi con Immunità+Vaccinati. Ho supposto, e si tratta di una supposizione accettabile, che i vaccini procedano a ritmo costante in un modello a tempo continuo- più comodo rispetto a quello discreto.

Come si evince, anche senza restrizioni, la curva degli infetti raggiunge un picco per poi scendere fino a zero lasciando parte della popolazione senza infettarsi.

Questo funziona sulla carta: nella realtà dobbiamo chiederci se possiamo pagarne il prezzo. Perché quei contagi significano morti, dolore, sofferenza. E non sappiamo ancora quali siano gli effetti sul lungo periodo dell’infezione. 

Quando si discute di politiche pubbliche per contrastare un’epidemia, bisogna distinguere tra mitigazione ed eliminazione. Una differenza ben sottolineata nel famoso studio dell’Imperial del 2020, che sosteneva che misure di mitigazione non sarebbero bastate per evitare il collasso del sistema sanitario nei paesi occidentali. Purtroppo, la mitigazione è stato poi il mantra dei paesi occidentali, convinti che si potesse vivere con il virus, intervenendo in ritardo quando i buoi erano già scappati.

A uscirne vincitori sono invece i paesi che hanno applicato Zero Covid, una strategia basata sull’anticipare il virus e ridurre la circolazione al minimo. Purtroppo questa strategia è stata snobbata dall’opinione pubblica, con frasi ad effetto come “non esiste il rischio zero” che lasciano davvero il tempo che trovano oltre a dimostrare la totale mancanza di argomenti da parte dell’interlocutore. O con affermazioni dimostratesi false alla prova della realtà, come quella di Roberto Burioni che ancora oggi fatica a capire che la diffusione di un’epidemia è competenza- volendo usare termini suoi, non miei- di un epidemiologo e non di un virologo. Anche qui, non si rimane sorpresi: Burioni forse dovrebbe riascoltare Feynman quando diceva che non importa chi formula una teoria, non importa quanto è brillante o quanto elegante la teoria, se non si applica alla realtà, allora è sbagliata.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti: il numero di morti in paesi come Nuova Zelanda, Australia, Cina lascia sbalorditi rispetto ai paesi occidentali. 

Anche dal punto di vista economico, come hanno sottolineato Aghion et al, la strategia si è dimostrata vincente. Non si tratta di andare avanti a colpi di lockdown feroci, ma di avere un’infrastruttura tale per cui si riesce a intercettare il virus prima che questo si diffonda, con interventi mirati e nel locale, presi in tempo. Perché, sia chiaro, il lockdown rappresenta un fallimento, se fatto tardi. Richiede più tempo per tornare a una situazione di calma. Ma è l’unica arma che ti rimane quando la situazione precipita.

Spendo qualche parola sulla questione salute mentale: è vero che le restrizioni possono portare a un peggioramento della salute mentale, ma che a dirlo siano quelle persone che, in tempi normali, se ne fregano altamente del problema provoca un solco lungo il viso come una specie di sorriso. La salute mentale dovrà essere il tema dei prossimi anni e non solo per il virus, come dimostra il Macquerie Youth Index del 2018 per UK e altri studi nel resto del mondo.

Si poteva mettere in piedi una strategia di questo tipo in occidente? Per quel che vale, la risposta che darei è no.

Per due motivi. Il primo è lo svuotamento delle capacità dinamiche dello Stato. Non è un caso che Cina e Corea del Sud abbiano reagito prontamente alla pandemia, avendo un settore pubblico in grado di cogliere la dinamicità e la complessità della situazione. Non appena la pandemia ha mostrato la sua ferocia, la Corea del Sud ha messo in piedi un mastodontico sistema di tracciamento e di tamponi grazie a una PPP, cosa che in Occidente, come dimostra Immuni, non si è fatto. La Corea del Sud poteva essere un modello, si è preferito altro.

Il secondo riguarda la nostra comprensione della libertà individuale. Senza scendere in una discussione filosofica che non mi compete, il problema è comprendere appunto i limiti di un’interpretazione atomistica della libertà umana: una libertà strettamente negativa, che richiede la retrazione di ogni tipo di restrizione alla volontà del singolo. Come la crisi climatica, una pandemia è un fenomeno complesso: l’Io si perde nel noi. Le crociate per l’apertura di ristoranti, discoteche e chi più ne ha più ne metta dimostrano che non abbiamo compreso questa piccola lezione. Eppure lo spettro della crisi climatica questo richiederebbe: una seria riflessione sul coniugare la libertà individuale con i bisogni sociali.

Quello che possiamo fare, quindi, è aspettare che il gelido inverno lasci spazio alla primavera, con le rondini che volteggeranno in cielo sgomente in cuore per la forza con cui la natura si riprende le sue forme e i suoi colori, parafrasando Lucrezio.

Che cosa faremo? Come al solito, lo diceva già Dostoevksij: piangeremo un po’ e poi ci abitueremo. L’uomo, quel maledetto animale che si abitua a tutto

TAG: Covid, Draghi, epidemia, lockdown, Vaccini
CAT: Sanità, Scienze sociali

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