Lasciamo che l’emergenza ci insegni il silenzio e la calma
Io ho come l’impressione che noi fermi e in silenzio non ci sappiamo veramente stare, neanche nell’emergenza, tanto meno nella paura. Questo Covid19 – così si chiama – ci mette alla prova non solo dal punto di vista sanitario ma soprattutto sotto il profilo umano, che ha un peso ben più decisivo. Mettiamoci l’anima in pace una volta per tutte, facciamo un lungo respiro e diciamoci che no, non possiamo fare la vita di sempre ma la vita continua lo stesso, non ci resta scelta che adattarci e affrontare tutto, soprattutto la noia.
La noia: un concetto che non abbracciamo più neanche nel suo senso più basilare che è anche il più sano. Annoiarsi significa dare valore al tempo pieno e di qualità, e invece noi in preda alla noia facciamo altre cose. Sentiamo l’impellenza di farle, e forse non le faremmo se non fossimo in preda alla paura, ma il problema è che stiamo dimostrando di non essere in grado di razionalizzare, di fermarci. Svaligiamo supermercati, fuggiamo dagli ospedali in taxi, inventiamo malori per sfuggire alle forze dell’ordine. Presi dal panico dopo due giorni in casa prendiamo il primo treno e attraversiamo l’Italia perchè da soli non ci sappiamo stare. Chiediamo agli influencer di esprimersi su un’emergenza sanitaria se no ci sentiamo persi senza un’ulteriore, ennesima, inutile opinione.
E, apoteosi, organizziamo aperitivi con consumazioni gratuite per ribellarci alle regole restrittive del coronavirus per dire che ci siamo e non ci fermiamo.
Si, io sono fra quelli che presa dalla voglia di normalità ha apprezzato il video #milanononsiferma. Ad una settimana di distanza ho cambiato idea: Milano si ferma, eccome, perché non ci sono alternative, ed è l’unica forma di adattamento.
E diciamoci onestamente una volta per tutte che la paura collettiva ha anche un sapore di comodità, di un senso quasi confortante in questa uguaglianza inesorabile racchiusa nella crisi, nella mappa democratica del contagio. Da qualunque parte ci giriamo sappiamo che l’impiegato alle poste, il medico, il dirigente, l’operaio, il barista, l’attore, il ministro, il pensionato vivono la stessa nostra identica condizione di attesa, di tempo congelato, di ansia di quel che sarà. Sarebbe bello riuscire a trasformare questo filo che ci lega in un’occasione di rispetto per la vita, adesso e dopo: se tutti sono esposti lo siamo anche noi, quindi non possiamo decidere di fare di testa nostra, di inventarci diagnosi e regole, di essere insofferenti davanti ad una precauzione che tutela tutti, a partire dai più deboli.
Le grandi testate giornalistiche danno spazio a perfetti sconosciuti che producono contenuti così pateticamente imbarazzanti perché zitti non ci sanno stare, in un mondo dove il silenzio è considerato un fallimento. Chi si ferma e sta in silenzio è percepito come lontano dalla realtà, scollato dai fatti, e invece forse è l’unico ragionevole atteggiamento che possiamo avere. Informiamoci, scegliamo con cura le fonti e godiamoci i le piccole e poche facce positive di questo poliedrico periodo, perché quando faremo i conti con il “dopo” dovremo avere tutte le energie necessarie a ripartire, riaprire, riprogrammare, ricominciare. Nel frattempo prepariamoci a numeri destinati ad aumentare, un conteggio che non facciamo mai con altre malattie, ma che in questo caso ci riporterebbe parecchio coi piedi per terra.
Proviamo a fare un esercizio complesso ma molto utile, di cui probabilmente saremo grati a noi stessi guardandoci indietro: riappropriamoci delle attività negli ambienti domestici, della solitudine, recuperiamo anche in senso simbolico quei piccoli hobby che avevamo accantonato, rivalutiamo la libertà che comunque continuiamo ad avere, inventiamo i modi nuovi di intrattenere i bambini e pure noi stessi. Basta questo per rispettare le regole che ci vengono imposte. Pensiamo a chi non può fermarsi, pensiamo al confort di un sistema sanitario pubblico che ci tratta da pari e che spesso dimentichiamo, che fa tutto il possibile per organizzarsi in tempi rapidi ad un evento solo parzialmente prevedibile.
Perché qui dopo otto giorni c’è chi accarezza gli alberi per mancanza di contatto umano, ma il rischio vero è quello di perdere il contatto con la realtà, e ne usciremmo ancora più ammaccati.
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