Sanità
Non solo “Immuni”: le App anti-Covid in ritardo in tutta Europa
A un mese dalla fine del lockdown, l’Italia ancora aspetta la sua app contro il Coronavirus. Ma il nostro paese è, per così dire, in buona compagnia. In Francia l’applicazione dovrebbe fare finalmente il suo debutto solo domani. In Germania il lancio è previsto non prima di metà giugno. E in Spagna una data d’uscita neanche c’è. Ma anche tra i paesi in giro per il mondo che sono un passo avanti, le difficoltà non mancano. In Australia, ad esempio, la app è pronta da tempo, ma sono mancati i download. Stessa storia in Norvegia e a Singapore. E intanto sono spuntati fuori pure possibili problemi di precisione e falsi allarmi.
Insomma, le Corona-app dovevano diventare la panacea high-tech capace di bloccare il contagio. Non è andata proprio così. Almeno per ora.
Cosa non ha funzionato? La celebre testata online “The Correspondent”, alcune settimane fa, ha dato il via ad un’inchiesta sulle tecnologie di sorveglianza impiegate per combattere la pandemia. Il progetto si chiama “Track(ed) Together” e ha coinvolto esperti e giornalisti di tutto il mondo, ciascuno chiamato a raccontare cosa stava succedendo nel proprio paese. Tra questi giornalisti c’eravamo anche noi de “Gli Stati Generali”. Queste sono le risposte che abbiamo trovato.
Il giro del mondo in 80 app
L’idea di usare le app per fermare il virus pare avere contagiato i quattro angoli del pianeta. L’inchiesta Track(ed) Together ne ha contate in tutto un’ottantina. Alcune sono più trasparenti: hanno regole sulla privacy chiare e un software open source, in modo che chiunque possa controllare come funzionano, come accade ad esempio da noi in Italia. Ma in parecchi casi, purtroppo, non è così ed è di fatto impossibile capire esattamente cosa succeda ai dati raccolti dagli utenti.
L’obiettivo di queste app è sostanzialmente sempre lo stesso: registrare gli incontri tra persone e avvisare gli utenti se sono entrati in contatto con un malato. Ma spostandosi da paese a paese, cambia la tecnologia. Ben 29 app sfruttano il sistema Bluetooth.
Altre 11, invece, usano la tecnologia Gps, che non solo è in grado di registrare “l’incontro” tra due telefonini come fa appunto il Bluetooth, ma anche di seguire lo spostamento delle persone. E’ una scelta più “invasiva” per la privacy, ma che è stata adottata, per esempio, anche da paesi tradizionalmente molto attenti ai diritti cittadini come l’Islanda e anche da Israele che ha lanciato una applicazione che si chiama Shield che è già stata scaricata mezzo milione di volte ed utilizza oltre al Gps anche il Wifi.
Quindici app, poi, funziona con un’altra soluzione ancora: i codici a barre; con l’utente che deve fare check-in come all’ingresso dei gate negli aeroporti. Infine: undici app usano un mix di tecnologie per essere più efficaci: Bluetooth e Gps; Bluetooth e codici a barre; o addirittura Bluetooth, Gps e codice a barre.
Soluzione europea: missione fallita
Una buona fetta di queste applicazioni, comunque, per ora esiste solo sulla carta. L’Europa, per esempio. Nonostante gli annunci (tanti) e i titoli sui giornali (altrettanti) molte app nel Vecchio Continente sono ancora in fase di test o di sviluppo. Eppure è da tre mesi che ci si lavora sopra senza sosta. A fare il primo passo era stata la Germania che a marzo aveva dato il via a un piano molto ambizioso: dar vita ad una soluzione tecnologica che potesse essere utilizzata da tutti i paesi europei. Il progetto, che si chiama Pan European Privacy-Protecting Proximity Tracing (PEP-PPT), però ha avuto vita breve.
Gli scienziati europei che stavano lavorando al “PEP-PPT” avevano previsto che la app usasse il Bluetooth per registrare i contatti tra le persone che l’avevano scaricata per poi inviarli ad un server centrale per essere elaborati. Ma questa soluzione non è piaciuta a tutti. Anzi. Oltre 300 esperti di tecnologia, con una lettera aperta che ha fatto molto rumore, l’hanno bocciata per il timore che si stesse costruendo un Grande Fratello, capace di tenere sott’occhio gli incontri tra i cittadini.
A dare il colpo di grazia, però, non sono stati i dubbi di scienziati e tecnici del diritto, ma uno dei due giganti degli smartphone: Apple ha rifiutato di cambiare le impostazioni dei suoi telefoni per permettere alle app che dovevano nascere con il sistema PEP-PPT di raccogliere i dati. Risultato: la Germania, per prima, ha abbandonato il progetto e così l’idea di una soluzione made in Europe è naufragata.
Giganti Usa: avanti adagio
Tramontato il progetto europeo, è tornata alla carica la Silicon Valley. Apple e l’altro grande big dell’alta tecnologia a stelle strisce, Google, hanno lavorato fianco a fianco per mettere in campo una soluzione diversa: registrare, sempre via Bluetooth, gli incontri degli utenti, ma lasciare questi dati sul telefonino; sarà poi la app stessa ad elaborarli per capire se tra i contatti registrati ci sia pure quello con una persona infetta.
La tecnologia messa a punto dal duopolio dei telefonini mondiali è piaciuta agli esperti della privacy e anche ai governi: la userà la Germania, ma anche Spagna e Italia; mentre la Francia ha deciso di provare comunque a realizzare una app nazionale con le proprie forze. I tempi, nel mentre, si sono però allungati praticamente ovunque.
Google e Apple hanno rilasciato la Api (application programming interfaces) che permette ai programmatori di sviluppare le singole app nazionali solo il 20 maggio, cioè una manciata di giorni fa, quando l’epidemia aveva già cominciato a battere in ritirata e le misure più stringenti di lockdown erano diventate ormai un ricordo nelle maggior parte dei paesi europei. Paesi europei, tra cui appunto l’Italia, che infatti una app non ce l’hanno ancora, proprio perché mancavano alcuni pezzi fondamentali per costruirla. Ma anche la Gran Bretagna che pure come la Francia ha deciso di fare da se, senza cioè appoggiarsi a Google e Apple, è ancora alle prese con problemi tecnici e non ha una data ufficiale di lancio.
Dubbi sulla privacy e guai tecnologici, dunque, hanno frenato una buona fetta di Europa. Ma anche gli Stati Uniti non stanno certo procedendo a passo di carica. Secondo l’Associated Press, soltanto 3 stati su 50 hanno lanciato delle loro app nazionali senza aspettare Apple e Google – e senza grande successo. Nello Utah i dati sui contatti sono stati raccolti, ma non utilizzati. In Sud Dakota, solo il 2% della popolazione ha scaricato la app e in Nord Dakota ancora meno.
Pochi download e meno utenti
Se anche le app ci sono, però, il problema più grosso pare essere quello di convincere le persone a scaricarle. A Singapore portata spesso ad esempio come faro high-tech nella lotta al Coronavirus, la app anti-contagio esiste già da un pezzo, precisamente da marzo. Si chiama TraceTogether. Ma, dati di maggio alla mano, l’aveva scaricata solo una persona su quattro. Un’eccezione? No. In Australia i numeri erano grosso modo gli stessi: solo cinque milioni di abitanti su 25 hanno effettuato il download. E in India, dove pure scaricare la applicazione sarebbe obbligatorio, è andata anche peggio: lì i download sono stati cento milioni, peccato che il paese faccia 1,35 miliardi di abitanti.
Scaricare una app, poi, come sanno tutte le persone che hanno in tasca un telefonino, non vuol dire usarla. In Norvegia, altro paese che già lanciato una app anti-contagio, circa il 25% dei cittadini ha fatto download. Ma in un rapporto di fine aprile l’istituto di salute pubblica norvegese sottolineava che solo il 20% di questo 25% la stava effettivamente utilizzando.
Punti interrogativi e falsi allarmi
I numeri, col passare dei mesi e delle settimane, potrebbero migliorare. Ma quanto poi le persone effettivamente useranno queste app rimane un punto interrogativo. E non è l’unico. «Finora non abbiamo nessuna prova che le applicazioni siano più efficaci dei metodi tradizionali di tracciamento dei contagi», dice Meru Sheel, epidemiologo dell’Australian National University, uno degli esperti intervistato per l’inchiesta Track(ed) Together. In Australia la app è in uso da tempo: è stata lanciata già il 26 aprile. E, spiega Sheel, potrebbe rivelarsi decisiva in caso di una seconda ondata di epidemia. Per ora, però, non è andata così.
Altra questione aperta: che fare con i dati raccolti? In Italia, dove i test sulla nostra applicazione che si chiamerà Immuni dovrebbe cominciare a giorni in tre regioni pilota, non è ancora chiaro al cento per cento che si farà con le informazioni ricavate dal tracciamento dei contagi: cosa dovranno fare esattamente le persone che sono state a contatto con un malato?
Anche in questo caso, però, il nostro paese è in buona compagnia: sono domande, queste, che si stanno facendo un po’ tutti i governi. «Supponiamo di scoprire che ci siano 50 persone che sono state a contatto con un infetto. Facciamo il test a tutti? Le teniamo tutte in quarantena? Ci sono davvero abbastanza risorse per farlo?», si chiede Paul Olivier Dehaye, altro esperto intervistato per l’inchiesta Track(ed) Together. Matematico, esperto di big Data, Dehaye sottolinea che i dati non basta raccoglierli, poi bisogna saperli usare nel modo giusto e non dimenticare mai una cosa fondamentale: lasciare spazio ai dubbi: «Potrebbe anche accadere che l’app identifichi contatti a basso rischio e ignori altri che sono più in pericolo o perché le persone non la usano correttamente o perché la tecnologia non funziona correttamente», dice.
In effetti nessuna delle tecnologie impiegate dalle app è precisa al 100%. «Con il Bluetooth, ad esempio, c’è tanto il rischio di mandare falsi allarmi che di non mandare l’allarme quando si dovrebbe», spiega Jaap-Henk Hoepman, professore associato di Computer Science alla università di Radboud, in Olanda. Intervistato per l’inchiesta Track(ed) Together, Hoepman fa due esempi: una app che funziona con il Bluetooth può registrare un contatto che magari non c’è mai stato tra vicini di casa che vivevano in appartamenti diversi, ma che avevano un muro in comune; oppure può anche succedere che il contatto con un infetto non venga segnalato, perché i segnali Bluetooth sono bloccati dal corpo e così se si ha il telefono nella tasca posteriore dei pantaloni, la app potrebbe non vedere quello della persona con cui si sta parlando. Il Gps, poi, ricorda Hoepman, non è sempre preciso, soprattutto negli spazi chiusi.
Entusiasmo in calo
Qui in Italia, Il commissario straordinario all’emergenze Coronavirus, Domenico Arcuri aveva definito la applicazione anti-contagio indispensabile per uscire dal lockdown. Era il 26 aprile. L’obiettivo iniziale del nostro governo era ambizioso: farla scaricare almeno dal 60% delle persone. Poi il ministro dell’Innovazione, Paola Pisano ha abbassato l’asticella al 25%, prevedendo una adesione non proprio massiccia e un ruolo evidentemente ridimensionato nel combattere l’epidemia. Le settimane sono passate, il lockdown è finito, ma la app non si è ancora vista.
Attenzione, però: lo stesso copione è andato in scena in Olanda. Anche nei Paesi Bassi il ministro della Salute aveva presentato la app come una precondizione per porre fine alle misure di contenimento, ma anche l’Olanda ha riaperto e della app nessuna traccia. Il governo olandese, poi, ha cambiato narrazione: la app, oggi, è presentata solo come una specie di supporto digitale al tracciamento manuale dei contagi, quello – per capirci – che i medici di tutto il mondo hanno per altro sempre fatto finora parlando con i malati per sapere chi era entrato in contatto con loro.
E pure in Irlanda, dove era stata presentata come un elemento chiave per combattere l’epidemia, la app-anticontagio è finita in secondo piano. «Si è fatto un gran battage pubblicitario attorno a queste app all’inizio e sembrava dovessero avere grande importanza. Poi ci sono stati problemi tecnici e preoccupazioni sulla privacy che hanno fatto sì che la loro diffusione rimanesse bassa.E più passa il tempo e meno i politici ne parlano», osserva in una intervista per l’inchiesta Track(ed) Together Antonio O Lachtain attivista della associazione no-profit Digital Ireland.
App e non solo
Visti i problemi con questa prima generazione di app anti-contagio, c’è già chi sta cercando di aggiustare il tiro. E’ il caso di Singapore che ora ha lanciato un sistema di check in digitale chiamato SafeEntry: per entrare in negozi uffici ora è in molti casi obbligatorio registrarsi con la carta di identità o un codice a barre sul cellulare e sempre una app che funziona con il codice a barre è appena stata lanciata, il 20 maggio, anche in Nuova Zelanda. Ma ci sono anche paesi che l’app hanno scelto di non utilizzarla proprio.
Il Belgio, ad esempio, ha puntato tutto sui sistemi di tracciamento “umani”. «Non c’è bisogno di una app, tutto può essere fatto a mano, così come è stato fatto per anni», aveva detto, a fine aprile, Philippe de Backer, il ministro belga per le Telecomunicazioni. Così è stato: il Belgio non ha puntato sui telefoni, ma sugli esseri umani in carne ed ossa e ha assunto 2000 persone per tracciare la diffusione del virus.
E anche la Gran Bretagna, che pure sta testando la sua app sull’isola di Wight in attesa prima o poi di renderla disponibile, ha reclutato la bellezza di circa 20mila persone per tracciare i contagi. «Abbiamo quindi spostato l’enfasi delle nostre comunicazioni e piani per mettere prima il lavoro di tracciamento umano e poi la applicazione che verrà d’aiuto in un secondo momento», ha detto Lord Bethle, junior minister all’innovazione al dipartimento della Salute. Se e quanto di aiuto, al momento non si sa.
I dubbi del Consiglio d’Europa
«Considerata che manca prova della loro efficacia, val la pena affrontare i prevedibili rischi sociali e legali?», si chiedevano a fine aprile in una nota congiunta Alessandra Pierucci, presidente del comitato della Convenzione 108 e Jean-Philippe Walter, commissario per la protezione dei dati del Consiglio d’Europa. Le app, nel frattempo, sono arrivate o stanno arrivando. Il dubbio, però, rimane.
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