Famiglia
Soli da morire
Vivono in mezzo a noi come fantasmi. Muoiono soli come appestati. In Giappone li chiamano kodokushi: “morte solitaria”. In Italia questo fenomeno – che si ripete ormai regolarmente da decenni – non ha nome. Nessuno si è mai neppure preso la briga di contare i loro corpi: non i ministeri, neppure l’Istat. Ignorati in vita, nessuno li calcola neanche da morti.
Ma questi drammi non sono eccezioni: un’epidemia di solitudine ha investito il paese negli ultimi decenni. E con le misure antiCovid è andata anche peggio.
Giornalisticamente parlando, di solito il morto solo in casa vale quello che vale: una manciata di righe più una foto formato tessera da qualche parte in cronaca, sul giornale locale. Poi ci sono eccezioni, tipo se il morto è molto morto. Se parliamo di mesi, meglio ancora anni, ci sta – come è successo qualche mese fa per la povera Marinella Beretta ritrovata mummificata, in casa sua, a Como, due anni dopo il decesso – che a volte si scomodi pure un Corriere o una Stampa. Ci sta andare a caccia di vicini che «al caro estinto piaceva parecchio stare per conto suo». Ci sta un bell’editorialino per dire: manco più la morte è quella di una volta.
Un po’ di indignazione.
Una spruzzata di commozione.
E pace e amen.
Ma quanti ogni anno muoiono soli?
Mentre leggo e rileggo la storia di Marinella che fece tanto scalpore a febbraio di quest’anno, è questa la prima domanda che mi rimbalza in testa. In Giappone – dove questo fenomeno è chiamato kodokushi ed è noto e studiato da tempo – si stimano 30mila casi all’anno. E in Italia? Provo a mandare una mail al ministero della Salute. Ma niente da fare: l’ufficio stampa mi dice di rivolgermi all’Istituto superiore di sanità che però mi dice di sentire magari l’Istat che mi suggerisce di chiamare il Ministero della Giustizia che mi risponde che, «buongiorno» però «con riferimento a quanto richiesto si comunica che il Ministero non è in possesso del dato. Cordialmente»
Cordialmente. Già.
Ma dico io: come si fa da affrontare un problema, se nemmeno se ne conoscono le dimensioni? Il Covid e gli inviti a rimanere chiusi in casa – tanto per dire – potrebbero avere moltiplicato questi casi, creando una emergenza nella emergenza. Ma come facciamo a saperlo? E poi: di che muoiono esattamente queste persone? Non è che c’è una sorta di sindrome della solitudine? Ma anche qui, senza uno straccio di numero, come si fa a capirlo?
Nel frattempo chiamo don Dino Pistolato
Guardo sul display del telefono il suo numero. Per un attimo, esito. Come ogni dannata volta, devo vincere l’imbarazzo. L’imbarazzo di parlare con uno sconosciuto, di chiedergli – per favore – se mi fa entrare nella sua vita e in quella delle persone che gli stanno attorno. Anni che faccio questo mestiere, niente. Credo non mi abituerò mai. Per fortuna, Don Dino capisce subito di cosa voglio parlare: «Marinella Beretta, la donna di Como? Sì, certo ho sentito…». Don Pistolato capisce al volo anche perché voglio parlarne proprio con lui.
E’ parroco della Chiesa di San Giovanni Battista, a Mira, 38mila anime, a sud di Venezia. Terra di mare, anzi di laguna. Terra di schei. Qui c’erano una volta – e ci sono ancora – alcune delle ville più belle progettate dal Palladio per i patrizi veneziani. Qui – oggi – ci sono soprattutto tante villette: due piani, un giardino e un muretto a tener fuori il resto del mondo. Qui la campagna è tagliata dal fiume Brenta, due metri d’acqua, che scorre placido placido tra fabbrichette e fabbricone come quella storica dei detersivi Mira Lanza. Qui la solitudine ha profondità abissali.
Negli ultimi sette mesi del 2021, sei persone sono morte sole, tra le mura di casa loro: i cadaveri scoperti a distanza di giorni, a volte settimane.
Don Pistolato ha deciso di muoversi: ha creato una squadra antisolitudine. «Con il gruppo di carità parrocchiale cerchiamo di sensibilizzare la gente». Cioè? «A conoscere i vicini e se ci sono delle persone che vivono sole, ad avere uno sguardo attento nei loro confronti. Qualcosa si faceva anche in passato, ora di più. Purtroppo c’è la malattia della indifferenza, che per molti è una specie di meccanismo di difesa: meno so, meglio sto. Ma posso dire una cosa?». Prego. «Questo è un fenomeno silente, rimasto sempre sott’acqua – mi spiega Don Pistolato -, ma non è nuovo. E’ una lunga storia. Io ricordo già 40 anni fa, a Trieste, che avevano trovato 8 persone morte sole, a casa. Otto in un solo giorno…».
Storia di due fratelli
Proprio a Mira – in passato – c’era stato un altro caso che aveva scosso la quiete di quest’angolo di laguna. Era maggio 2015. Puzza e mosche – raccontano le cronache di quei giorni – assediavano la porta di un appartamento che non si apriva da mesi. Il fastidio. I primi dubbi. Un vicino prese il telefono. Carabinieri e vigili del fuoco entrarono e si trovarono di fronte una scena capace di lasciare attonito anche chi per mestiere è abituato a vedere di tutto: era primavera avanzata, ma i cadaveri di Emanuele e Mauro Gallina, 43 e 41 anni, avevano ancora addosso abiti pesanti, invernali. In casa – un alloggio popolare – non c’era luce, non c’era gas. Non c’era niente. Anche gli armadietti in cucina: praticamente vuoti. Non fu suicidio. Non fu rapina. Erano morti di fame e di freddo? Di stenti? O cosa?
Erano disoccupati, i due fratelli, e questo si sapeva. Come si sapeva che dovevano andare a mangiare alla Caritas. Si diceva pure che a Mira non abitassero più, che se ne fossero andati in Germania a caccia di pane e fortuna. Non era così. Loro non si erano mai mossi, ma erano diventati come invisibili per tutti gli altri.
Papà si era ucciso, anni prima. Anche mamma se ne era andata nel 2012. Da allora Emanuele e Marco erano diventati sempre più soli, persi in chissà quale vortice di dolore che un bel giorno li ha fatti sparire, inghiottiti. Fantasmi, anche se vivi. Poi, fantasmi – e basta.
Diventare invisibili
Ricordo questa storia a Don Pistolato, quando ci incontriamo nella sala di casa sua, a due passi dalla chiesa e dal cimitero di Gambarare. Gli ripeto proprio questa parola: fantasmi. Lui annuisce: «Proprio io l’anno scorso ho celebrato uno dei funerali di questi morti in casa e l’ho detto: queste persone, per voi, erano purtroppo già morte ancora prima che i loro corpi fossero scoperti: non erano morte fisicamente, ma nella memoria, nella vostra mente sì, non c’erano già più, non li vedevate già più». Come trasparenti, appunto.
Già ma com’è che si diventa invisibili? I sei di Mira avevano avuto vite diverse: c’era l’agricoltore, l’operaio, la casalinga. Alcuni erano anziani, altri no. Ma una cosa avevano tutti in comune oltre al fatto di vivere soli: non lavoravano. Erano in pensione. Erano disoccupati. Nessuno si è accorto che erano scomparsi anche perché non avevano nessun cartellino da timbrare. Non erano – o non erano più – un pezzo di quella grande fabbrica che è diventato il mondo. Senza di loro, l’ingranaggio andava avanti uguale.
«Mira è un piccolo centro, si conosce tutto e di tutti, anche troppo. Ma a volte subentra come un disinteresse che poi diventa oblio: è quando le persone diventano meno attive, meno efficienti. Finché sei funzionale al sistema, bene. Ma se no, se hai bisogno di aiuto, diventi un problema: e allora resti solo. O, se sei molto anziano, magari finisci in casa di riposo e gli altri si dimenticano di te…», mi spiega Don Pistolato. Che subito allarga il discorso: «Il problema non sono soltanto quelli che muoiono soli. Ci sono centinaia di persone che di fatto sono già morte, anche se continuano a camminare, perché non hanno più relazioni con nessuno. Alcune mi chiamano, sa?» E cosa le dicono? «Don Dino, possiamo parlare un po’? E io a volte le vado anche a trovare. Guardi: se una persona è già morta lo capisci al funerale. Quando ci sono solo i parenti, erano come già morti. Quest’anno ho celebrato 96 funerali. I fantasmi? La metà. Sì, il cinquanta per cento. Senza ombra di dubbio». E queste ultime parole Don Pistolato le scandisce: senza – ombra – di – dubbio: «Ma Mira non è certo il posto più disgraziato della terra, anzi. La pandemia però ha avuto anche qui un grande impatto. Molti anziani sono stati travolti dalla paura o “murati” in casa dai parenti più giovani che non voleva che si ammalassero. Il problema c’era già. Il virus lo ha acuito, lo ha reso ancora più evidente».
Sempre più soli
Il problema, mi ripete Don Pistolato più volte, è la qualità dei rapporti tra le persone, sempre più deboli, a volte proprio assenti. In una parola: la solitudine. E la solitudine non solo a Mira, ma in tutta Italia sta crescendo a ritmi impressionanti. Basta fare una ricerca nei database Istat per capirlo. Nel 1998 le persone che vivevano da sole erano 4,6 milioni. Nel 2010 quasi sette milioni. Oggi, otto milioni e mezzo. Questi “solitari” sono soprattutto anziani: uno su due ha più di 65 anni. E soprattutto donne: quasi 5 milioni su otto e mezzo.
Che sta succedendo? L’Istituto italiano di statistica lo spiega così: sono le «conseguenze delle dinamiche socio-demografiche di lungo periodo: l’invecchiamento della popolazione; l’incremento dell’instabilità coniugale; la bassa natalità. L’aumento della speranza di vita genera un maggior numero di persone sole. Il calo della natalità incrementa le persone senza figli mentre l’aumento dell’instabilità coniugale accresce il numero di persone che vivono sole o di genitori soli in seguito allo scioglimento di un legame di coppia»
Tradotto in parole povere: metti insieme meno matrimoni e meno figli con più divorzi e più invecchiamento e il risultato è questo: più solitudine. E sempre secondo i calcoli dell’Istat, se non cambia nulla, nel 2040 i solitari – per scelta o per forza – saliranno ancora e ancora: arriveranno a quota 10 e rotti milioni, che fa praticamente un italiano su sei.
Primi in Europa
Ma c’è un ma. Vivere da soli è un conto; sentirsi o essere soli, isolati è un altro. Ecco: anche questo – numeri alla mano – in Italia è un problema. Un sondaggio condotto questa volta da Eurostat, l’istituto europeo di statistica, era balzato agli onori delle cronache qualche anno fa. I dati erano del 2015, ma parlavano e parlano abbastanza chiaro: in Italia ben 13 persone su cento non hanno nessuno a cui rivolgersi per chiedere – in caso di bisogno – un aiuto di tipo morale o materiale. Non un parente, non un amico, non un vicino di casa e neppure un conoscente. Quello del nostro paese è – verrebbe da dire purtroppo – un vero e proprio primato: nessuno fa peggio di noi in Europa. In media negli altri paesi europei, le persone che non sanno a chi chiedere una mano sono la metà: 5,9 su 100.
Non solo. Altro dato sempre raccolto da Eurostat nel 2015: il nostro paese è anche quello, in Europa, con il maggior numero di persone che non ha nessuno con cui parlare delle proprie questioni personali: oltre 12 persone su cento a fronte anche in questo caso di una media europea che era la metà (6%).
L’altra epidemia
Questi numeri messi in fila da Eurostat fanno a pezzi il luogo comune che vuole proprio l’Italia, come «il paese del “volemose bene” e di una touch culture che ci vorrebbe molto aperti e comunicativi», scrivono gli psichiatri Diego De Leo e Marco Trabucchi in un saggio pubblicato poco prima che scoppiasse Il Covid, tre anni fa. Il libro si chiama “Maledetta Solitudine”: duecento e passa pagine di dati e studi che raccontano un’altra «epidemia», subdola e silenziosa, che sta letteralmente dilagando e non solo in Italia: la solitudine, appunto. De Leo e Trabucchi nel libro ricordano, per esempio, il caso dell’Inghilterra che ha creato addirittura un ministero ad hoc, ma anche i problemi degli Stati Uniti e di altri grandi paesi europei come la Germania e la Francia. Nessun paese occidentale – e neanche la Cina – sono immuni da questo male.
Nel libro, sempre a proposito di Asia, si parla anche dei kodokushi giapponesi e non solo giapponesi. Un passaggio in particolare mi colpisce: «Anche in Spagna, solo nei primi quattro mesi del 2010, a Madrid sono morte in solitudine più di cento persone, senza che nessuno se ne accorgesse». Nulla in particolare sull’Italia, però. Provo a contattare gli autori per vedere se hanno qualche informazione in più. Trabucchi – oltre che psichiatra, professore universitario; un curriculum più lungo dell’enciclopedia dei Quindici – è gentilissimo, ma chiaro come l’acqua di fonte: «No, non abbiamo numeri sul nostro paese», mi risponde dal suo studio a Brescia dov’è direttore sanitario del Gruppo di ricerca geriatrica. Ma non andrebbe studiato questo fenomeno? «La politica non c’entra. Colpa di noi, professori di università e responsabili di grossi centri di ricerca che non ce ne siamo occupati», mi risponde con grande onestà intellettuale. E però subito aggiunge: «Comunque, questo non è un problema quantitativo, ma qualitativo. Se uno ha cura delle persone fragili, delle persone sole, delle persone ammalate, basta una che sta male per occuparsene. La sofferenza della gente deve colpire la collettività. Che sia uno o cento, il problema è lo stesso. E’ chiaro che occorrono più sforzi se la situazione è più rilevante…».
Marinella e gli altri
Due anni. Tanto c’è voluto per accorgersi che Marinella Beretta era morta sola, seduta al tavolo della sua cucina, nella sua casetta a Como. La sua storia ha fatto il giro d’Italia, rimbalzando su giornali e tivù. Ma altre storie – simili purtroppo alla sua – accadono con una certa regolarità nel nostro paese. Certo, magari non passano anni, ma settimane o giorni, ma la dinamica è quella: un uomo o una donna, spesso anziani, muoiono soli in casa soli e il loro corpo resta lì senza che nessuno se ne accorga.
E’ successo ancora una volta, senza fare gran rumore, una manciata di giorni fa a Palermo, e a Trieste, e a Lodi. Il copione sempre lo stesso, quello letto tante volte sui giornali: i vicini di casa che non lo vedono più, la telefonata per lanciare l’allarme, le forze dell’ordine e i sanitari del 118 che arrivano quando ormai non c’è più niente da fare: le vittime, tutte e tre uomini, avevano 50, 70 e 62 anni. Erano morte da giorni. Solo spulciando su Google, e concentrandomi sui due anni e rotti di pandemia, ho trovato decine e decine di casi così e anche ben più drammatici. A settembre di un anno fa forse l’episodio più atroce di tutta questa stagione del Covid. A Borgo Santa Croce, pochi chilometri da Macerata, in una villetta, giacciono tre corpi: sono Eros Canullo, 80 anni; Alessandro, il figlio disabile; la mamma Angela Maria, anche lei costretta da una infermità a letto. Agghiacciante la ricostruzione che si legge nella perizia medico legale disposta dalla Procura di Macerata: il papà, che in casa si occupava di tutto, viene colpito da un malore, probabilmente un ictus: cade e non riesce più a muoversi. La madre e il figlio, incapaci di badare a se stessi, muoiono di inedia. Nessuno se ne accorge: li ritrovano, ma solo dopo mesi dal decesso.
«Come siamo andati a caccia delle persone non vaccinate…»
Le storie, dicevo, si assomigliano. Le cronache, anche. Chi muore da solo è spesso descritto come un solitario. Nella realtà – come spiegano De Leo e Trabucchi nel loro libro – non è così: queste solitudini estreme non sono una libera scelta; sono figlie di un disagio psicologico profondo. E’ come una gabbia da cui le persone spesso non riescono ad uscire. Ci si vergogna ad ammettere di sentirsi soli: si teme di essere bollati come strani, si teme lo stigma. E poi la solitudine produce solitudine: chi è solo infatti tende ad essere più “imbranato” nei rapporti umani e quindi viene messo da parte dagli altri. Altro classico refrain giornalistico, la domanda: ma com’è che ci si è accorti del cadavere solo a distanza di giorni, settimane o mesi? Non doveva ritirare la pensione barra pagare le bollette barra fare qualcos’altro? Ma anche qui, il punto è un altro: bisognerebbe, dice Trabucchi, prevenire: «Come siamo andati a caccia delle persone non vaccinate, perché era pericoloso per la loro salute, così dovremmo cercare queste persone estremamente sole, perché è pericoloso per il loro futuro».
Come il fumo
La solitudine, quando non è una scelta, produce «danni simili all’impatto provocato dall’obesità o dal consumo abituale di 15 sigarette al giorno», si legge sempre nel libro firmato da De Leo e Trabucchi. Studi su studi, infatti, dimostrano che disturba il sonno; favorisce negli anziani demenza e declino cognitivo; aumenta notevolmente il rischio di malattie coronariche e ictus. E poi le persone sole si prendono poco cura di se stesse: vanno meno o per nulla dal medico; mangiano male. Ma allora mi chiedo e chiedo anche al dottor Trabucchi: non è che queste persone morte sole sono in realtà morte di solitudine? «Certo – mi risponde senza esitazione -. C’è stata una causa biologica ma» spesso appunto è il decesso è una «conseguenza diretta della solitudine».
State a casa, ma non troppo
Questi ultimi due anni di pandemia e i continui appelli a rimanere isolati per non contagiarsi non hanno certo aiutato. «Gli inviti a restare a casa – osserva Trabucchi – sono diventati un mantra, qualcosa di eccessivo. Tali e tanti sono i danni della solitudine imposta che bisognava e bisogna avere il coraggio di correre qualche rischio». Ma ormai tant’è. Bisognava pensarci forse meglio prima. E per il futuro? «Il tema non scalda tanto la politica, perché la politica non è mai scaldata dai problemi veri della gente. E’ scaldata solo dagli interessi. Ma il punto è che occorre una società più giusta, del noi invece che dell’io. Una società che è curiosa degli altri. E finché questo non avviene, per via politica avviene poco». Insomma, dipende da noi. E’ davvero quello dei kodokushi, il mondo nuovo che vogliamo?
Foto di copertina: Mira, uno dei parchi cittadini
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