Sanità
Se il tempo si misura in vite
Ieri sono morte quasi 900 persone. Sono 40 all’ora. Poco meno di una al minuto. E’ un tempo ingordo e veloce, quello di oggi: un tempo che divora minuti e storie: un tempo che si misura in vite, ogni istante che passa. Ma nemmeno questo tempo feroce è riuscito a cambiare le rotelle di certi meccanismi, che continuano a girare, come se abitassero un’altra dimensione. Un altro qui. Un altro ora.
Parlo di meccanismi, perché è questa la parola che ha usato Domenico Arcuri, commissario per il potenziamento delle infrastrutture ospedaliere per l’emergenza Coronavirus, per spiegare che fine abbiano fatto centinaia di migliaia di mascherine, che in teoria la Protezione civile avrebbe consegnato alle Regioni e che però alle Regioni non risultano mai arrivate. «Non so se è un problema di corriere o aziende, ma da qualche parte il meccanismo si inceppa», ha detto appunto Arcuri a Repubblica.
Fatto sta che queste mascherine non si trovano. E fatto sta pure che il meccanismo che dovrebbe assicurare agli ospedali ciò che serve a salvare vite non s’è inceppato solo lì. Anche i ventilatori polmonari, fondamentali per allestire nuovi posti in terapia intensiva, mancano. La Consip, cioè la centrale d’acquisti dello stato, aveva fatto una maxi gara per comprarli. Ma «la metà verrà consegnata a fine emergenza che, come noto, non si prevede breve», ha detto sempre Arcuri.
Inutile cercare le colpe nel paese di Pirandello, dove lo stato è – e non da oggi – uno, nessuno e centomila. Uno, secondo la Costituzione. Ma centomila tante quante sono le facce con cui si presenta ai cittadini: cioè comuni, regioni, province, asl, ispettorati, consorzi e chi più ne ha, più ne metta; ciascuna con le sue logiche, ciascuna con il suo pezzettino di potere. E mai, o quasi mai nessuno che dica, quando occorre: sì, ho sbagliato, la responsabilità purtroppo è la mia. E giustamente: perché la responsabilità è appunto sparsa, talvolta anche a casaccio. E infatti Arcuri, in una riunione con i rappresentati delle Regioni, avrebbe pure detto: «Mi faccio carico delle responsabilità del commissario, ma non di Consip».
E sicuramente Consip, se interpellata, direbbe di aver fatto tutto in regola. E il problema, forse, è stato fino adesso proprio questo: che il virus, cioè, se ne frega bellamente di codici e codicilli, degli appalti e non. O come ha detto il capo della protezione civile, Giuseppe Borrelli in un’intervista a Repubblica: «L’epidemia va più veloce della burocrazia».
Una burocrazia, anzi un apparato statale, che continua a funzionare a norma di legge e che è a colpi di decreti e circolari – così tanti in questa emergenza che si fa fatica a tenere in mente il numero -; si diceva: è a colpi di decreti e circolari che vorrebbe arrestare anche il contagio, manco fossero medicine miracolose. Cilieginia sulla torta di una tavola già ben apparecchiata: in 18 giorni ben quattro moduli di autocertificazione, solo per gli spostamenti. Ma finora, questa burocrazia, nonostante lo zelo legificatorio, è riuscita ad arrestare con successo soltanto la vita economica e sociale del paese: «State a casa. Fermi tutti e mani in alto, nessuno si muova».
Ma c’è, come c’è sempre stato, anche altro in questo nostro paese. E il confine non è il Nord o il Sud, il Pubblico o il Privato. Perché ci sono le infermiere di Andria che le mascherine se le sono fatte con i vecchi camici. Perché c’è la start up di Brescia che ha preso una maschera da snorkeling della Decathlon e l’ha trasformata in un respiratore subintensivo. Perché ci sono il medico e l’azienda bolognese che i respiratori li hanno sdoppiati. Perché se lo stato fatica a spendere i soldi che pure ha in cassa per le sue stesse regole farraginose, ci sono ogni giorno cittadini, l’imprenditore con la fabbrica chiusa come il pensionato, che mettono mano al portafoglio per donare cose o danari – anche solo una pizza – per sostenere gli ospedali. E perché negli ospedali ci sono medici e infermieri e personale sanitario che fanno tutto quello che umanamente è possibile, senza più orari e a volte senza nemmeno gli strumenti necessari. E altri, se potessero, aiuterebbero, invece di stare in casa con le mani in mano. Ma vengono trattati quasi come fossero d’ingombro.
Non voglio parlare di Italia migliore o peggiore, ammesso poi che abbia un senso parlare di due Italie – e poi perché solo due? – e che non sia invece il caso di un paese, il nostro, a tratti schizofrenico. Dicevo: non voglio parlare di Italia migliore o peggiore, perché sono categorie che non non vanno bene per leggere una società. Presuppongono un sistema di valori e il mio, con tutta probabilità, non sarà mai il tuo. Ma una differenza c’è e si nota tra chi, magari anche disordinatamente e alla rinfusa, prova ad affrontare questo tempo ingordo e veloce e chi un po’ meno, chi ragiona e si comporta, cioè, un po’ come ha sempre fatto.
Ma come prima, non si può più, se il tempo si misura in vite.
E’ un tempo nuovo, in cui è la natura a scegliere, a selezionare spietatamente ciò che funziona, in cui ogni istante per qualcuno può fare la differenza. Il paese deve cambiare. Si deve adattare. Questa differenza di cui parlavo può essere una ricchezza: dal confronto possono nascere regole e idee nuove. Oppure questa differenza può diventare frattura, scontro. E allora sarà il caos. Mai come ora, io credo, c’è bisogno di politica, di politici per rimettere insieme i pezzi. Mai come ora di questa politica, di questi politici, si sente la mancanza.
(In copertina immagine originale di Davide Dinosio)
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