Sanità

Ripensare al concetto di emergenza se non vogliamo ridefinire quello di diritto

15 Aprile 2020

Viviamo in un mondo in cui l’emergenza, o eventi che vengono definiti tale, sono sempre più frequenti. In parte perché spingiamo al limite ogni cosa che facciamo, creando degli sbilanciamenti della “naturalità“ praticamente ubiquitari dall’altra, perché la nostra percezione e accettazione del rischio si sta abbassando, contrariamente a quello che la razionalità suggerirebbe “più mi spingo al limite, più sono disposto a rischiare”.

Invece pretendiamo che il nostro vivere sia sempre più protetto, anche da quei pericoli che in parte contribuiamo a creare. Cerchiamo continuamente chi tuteli le nostre vite e ci protegga dalla nostra fragilità ma siamo anche sempre meno disposti ad accettare quel margine d’errore, parte integrante della condizione umana. In un mondo sempre più ossessionato dalla ricerca della salute, dell’elisir di longevità, terrorizzato dalla caducità della vita umana, è facile, inoltre, che minacce, anche di entità moderata, vengano interpretate come gravi pericoli, da combattere anche a rischio di perdere ciò che abbiamo duramente conquistato e che ci permette di vivere fino in fondo la nostra dimensione umana.

La storia dell’uomo e della conquista della sua libertà, è passata per periodi bui, di guerre ed epidemie, ma la speranza che potessimo essere qualcosa di più di quel corpo, che così facilmente cominciava a imputridire o a cadere a pezzi sotto l’azione di malattie e di armi, ci ha permesso gradualmente di sviluppare una coscienza di noi e della nostra civiltà, di porci domande sul ruolo che avevamo o comunque avremmo voluto nel mondo. Ci sono stati momenti della storia in cui la difesa di principi quali libertà, uguaglianza e diritti ha predominato su quella della vita, in cui un uomo sano non valeva più di un uomo libero. Tralasciando riflessioni (ma soprattutto dubbi) sull’effettivo stato di diritto, uguaglianza e libertà dell’uomo moderno nel mondo capitalista, economicamente più o meno avanzato, la domanda da porsi è quanto la tutela della nostra salute individuale, nonché di quella collettiva, ammetta di scendere a patti con questa presunta libertà.

Le questioni che richiamano questa domanda sono molte, a partire da temi di salute individuale quale il ricorso all’eutanasia o al non rianimare, per arrivare a problemi di salute collettiva come l’obbligo vaccinale, l’accesso alle informazioni sanitarie personali. Tralasciando d’ora in poi il discorso sulla salute individuale e concentrandoci su quella pubblica, in linea di massima, senza cadere in una dialettica fine a se stessa, possiamo, forse, accettare il fatto, del resto previsto anche dalla nostra costituzione, che si configurino delle situazioni di particolare e comprovata emergenza che possano, temporaneamente, prevaricare sulle nostre libertà. Ma, soprattutto alla luce di quanto sta avvenendo in questi giorni, molte sono le affermazioni da definire in questo postulato, a priori, meglio che in itinere. Innanzi tutto, come deve essere definita l’emergenza, sia in termini qualitativi che quantitativi. Chi la deve definire? Poi il temporaneamente: questo avverbio può, forse, estendersi a tutto il perdurare dell’emergenza, se essa si autolimita in un tempo ragionevole (quale? Forse tale da non determinare un nuovo riassetto costituito delle libertà?), ma deve prevedere, invece, anche una fine nel caso che il pericolo si riveli ineliminabile, perdendo la sua caratteristica di emergenza: in questo caso è necessario garantire che si possa tornare liberi, anche se in un ambiente mutato, cioè più pericoloso.

L’esempio di questa pandemia è utile, purtroppo, per concretizzare quanto detto. La partenza è stata la diffusione di un virus sconosciuto, nuovo, potenzialmente in grado di attaccare e far ammalare l’intera popolazione mondiale, in tempi rapidi e con conseguenze disastrose su sistemi sanitari già ampiamente indeboliti da politiche irresponsabili. Del virus non si sapeva molto, si diceva che non fosse molto “cattivo” ma neanche molto “buono”, che comunque portasse delle morti…si parlava di un 2% di letalità. Ma si diceva che in caso di mancanza di mezzi per la sua cura tale percentuale sarebbe potuta crescere. Ma del virus si diceva anche, soprattutto, che potenzialmente avrebbe potuto bloccare interi paesi, perché se si fossero ammalati tutti contemporaneamente, nessuno avrebbe più potuto portare avanti il nostro sistema produttivo. Ed ecco configurarsi la prima possibile situazione di emergenza, quella economica. Ancora però c’era dello scetticismo e una certa indifferenza, probabilmente la stessa che si ritrova sempre per ciò che accade fuori
da casa nostra.

Abbiamo osservato la Cina costruire ospedali per curare i malati, è comparso qualche dubbio, è stato fatto poco (nulla?). A un certo punto il virus è arrivato in Italia, come previsto, da chiunque se ne intendesse, fra cui anche dai pochi che avevano provato ad avvisare che gli ospedali italiani non fossero così preparati in termini di contenimento delle infezioni. Non è arrivato troppo presto: considerando che in meno di tre giorni può arrivare un pacco dalla Cina, il virus è comparso perfino con un certo ritardo. In questo era stato “buono”, ci aveva dato del tempo per organizzarci, ma noi non abbiamo saputo sfruttare il vantaggio. È arrivato nel paese con il migliore SSN del mondo, perché ancora così, ce lo raccontano, i morti hanno cominciato a salire, vertiginosamente, la letalità è arrivata al 10%, soprattutto anziani, sì, ma non solo. L’epidemia è esplosa, soprattutto in Lombardia, una regione simbolo di ciò che, nel bene e nel male, non è l’Italia. Una fetta di paese che più d’uno dei suoi abitanti vorrebbe autonoma, perché troppo diversa da ciò che le sta anche poco più a sud. Un’emergenza che ha investito in pieno la sanità Lombarda, quell’eccellenza riferimento per i malati di tutta Italia, ma che gestisce a fatica anche le epidemie influenzali stagionali, e soprattutto anch’essa così distante dal modello italiano. Un’emergenza, dunque, locale: in un luogo che, però, particolare narrativo strutturale, è suo, nostro, malgrado motore di questa sconquassata nazione; un territorio che offre a tutti lavoro e a molti tristezza, con la sua ricchezza e i suoi cieli grigi.

Quando, e se, si sono chiesti se quello che stava accadendo in questa regione, così diversa dalle altre, poteva rappresentare uno scenario attendibile per predire quello che si sarebbe verificato nel resto dell’Italia, a nessuno è venuto il dubbio che, forse, no? Forse anche per via di quell’altra emergenza, quella economica? Se l’epidemia avesse colpito altre regioni, un po’ meno ricche, un po’ meno grigie i tempi per fare qualcosa, o meglio per dire, sarebbero stati lo stesso così stringenti? Lasciatemi la facoltà di dubitare. Ricordo che c’è una terra, chiamata terra dei fuochi, per esempio, quand’è che è stata trattata, non dico come emergenza, ma come problema nazionale? E d’altra parte, anche nella stessa Lombardia e nelle altre sue regioni confinanti, tutti quegli eccessi nell’incidenza di tumori, soprattutto nelle aree industrializzate lungo il Po, sono mai state considerate un problema? Comunque, molti, troppi hanno cominciato a fare ipotesi, ma non è qui che se ne vuole discutere. Quello che però è stato unanimemente deciso è che si era davanti a un’emergenza sanitaria di entità epocale. È qui che cominciano i veri laceranti dubbi. Su quali basi lo si è deciso? Del virus non si conosceva e non si conosce ancora quasi nulla: non sapevamo quanto fosse contagioso, quanto fosse resistente, quale fosse la sua carica infettante, non sapevamo quale percentuale di persone infettate sviluppassero una malattia grave, quanti una lieve quanti, ancora, nessun sintomo, abbiamo scoperto ora che, forse, non avevamo nemmeno capito che malattia producesse. Qualche cosa ci dicevano i dati cinesi, che però non sono stati ritenuti attendibili (forse una delle poche cose che abbiamo azzeccato), come abbiamo potuto stabilire che fosse emergenza, e che fosse nazionale? Il numero di morti? Numeri ben più alti di decessi sono da imputare a meccanismi ed azioni che lo stato non solo non vieta ma su cui lucra anche (inquinamento, fumo, commercio di armi) e su cui mai nessuno ha dichiarato uno stato di emergenza.

Ma i numeri della pandemia hanno colpito anche perché resi noti secondo una narrazione univoca in cui i mezzi d’informazione hanno fatto da padrone disseminando terrore. A questo punto, solo a questo punto, si è cominciato a pensare a cosa fare, quando ormai non c’era più tempo, quando il dato era tratto. Come fare? Cosa fare? Accolite di scienziati e tecnici, con le proprie teorie e, finalmente, una soluzione che sembra essere venuta fuori da una conversazione da tavolino di bar, più che da un tavolo di esperti: dichiarare lo stato di emergenza per tutto il paese, sospendere, i diritti costituiti, le principali libertà, chiudere tutto. Sotto la minaccia di un’emergenza vera, sì, ma molto enfatizzata, ci hanno sottratto diritti fondamentali, certo tutto previsto dalla costituzione, ma era davvero questa l’unica carta da giocare in questa situazione? Il gioco valeva la candela? Non c’erano altre possibilità? Io credo di sì, come cittadino e come epidemiologo, con tutto quello che stiamo investendo, ma soprattutto perdendo, anche in termini economici, avremmo potuto organizzare qualcosa di più originale, che limitarci a chiuderci sotto una campana di vetro.

Certo sarebbe stato più difficile, avrebbe richiesto un
minimo d’immaginazione, avrebbe presupposto un dibattito più democratico, forse sarebbe stato un po’ più rischioso, avrebbe lasciato il dubbio di un margine di fallimento e soprattutto di recriminazione “avreste potuto fare di più”, non tollerabile solo per una questione di consenso. Così è stato fatto il massimo che si poteva fare nel più breve tempo possibile, qualcosa che somiglia a un esperimento sociale di cui noi siamo le cavie e di cui nessuno ha idea delle conseguenze. Non solo di cui non si ha idea delle premesse: pochissime informazioni, prima alcune, poi altre, poi corrette. Una decisione così drastica presa su un mare di incertezze. Avremmo potuto andare per gradi, e forse avremmo capito anche meglio il problema. Avremmo potuto avere un’occasione per tentare di responsabilizzare le persone, per educarle, invece che colpevolizzarle, renderle nemiche fra loro e delatori di quartiere. Forse avremmo fallito, ma lo avremmo fatto nel possesso della nostra piena umanità, e questo detto da una che non ha neanche una gran fiducia nel genere umano. Fiducia che è scesa quando ho cercato dubbi fra la gente e ho trovato solo granitiche certezze. È stato detto che bisogna fare così e lo facciamo, senza domande. Lo ha detto la scienza. Ce lo hanno imposto. È per il bene di tutti. Questo bene comune, che ogni volta che viene tirato in ballo, mi insospettisce, come scriveva Céline, sulla guerra: “ve lo dico io, gentucola, coglioni della vita, bastonati derubati, sudati da sempre, vi avverto, quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, è che vogliono ridurvi in salsicce da battaglia…È il segnale…È infallibile. È con l’amore che comincia”. Ma evidentemente è sospettoso malessere e di pochi altri. Perché la maggior parte crede davvero che finalmente il governo, quello che magari nemmeno ha votato, quello su cui fino a ieri sputava sopra, finalmente abbia deciso di fare del bene ai cittadini, agli italiani. È bastata un po’ di paura. Mah, buono a sapersi, politicanti esperti, appuntate… (per alcuni no, non c’è bisogno perché che la paura porta un sacco di voti l’hanno sempre saputo).

Ora tutti siamo filo-governativi, il virus ci ha unito, siamo finalmente un popolo perché combattiamo lo stesso nemico, oggi ci hanno detto che è il Covid-19, domani ci diranno qualcos’altro, o qualcun altro, basta che a dirlo sia qualche scienziato.…Qualcuno si nasconde dietro il non essere “esperto del settore”, altri si fanno paladini di una giustizia arbitraria. Non è colpa loro se non sanno? Difficile deciderlo in poche parole, di tutti i milioni di tedeschi che hanno perseguitato, o anche solo denunciato, gli ebrei che abitavano al piano di sopra, pochi sono stati processati e ancora meno condannati. Perché la cosa che mi fa paura di questa emergenza è che la poca serietà con cui mi sembra sia trattata dal governo, dalla scienza, dai mezzi d’informazione, sia nella sua definizione, che nelle misure per limitarla, possa rappresentare un gravissimo precedente per la nostra democrazia. Perché il dubbio è che, a questo punto, ogni cosa possa essere letta nel segno dell’emergenza, che si trovi sempre qualcosa per impedire ai nostri figli di andare a scuola, a un padre di abbracciare un figlio, alle persone di unirsi. Ma ritorniamo alla pandemia. Siamo chiusi nelle nostre case da più di un mese e cosa è successo? Sarebbe bello saperlo, e la maggior parte crede di esserne a conoscenza perché ogni giorno alle diciotto accende la tv o si collega a internet e controlla i numeri, in una specie di edizione rinnovata del “il lotto alle otto”. Ed ecco i numeri: i positivi, che però non si sa se sono davvero tutti, i tamponi che però non si sa se sono affidabili, i ricoverati, che però non si sa se lo erano da prima e si sono ammalati o se si sono ricoverati per il virus, i morti, nella cui conta però può essere sfuggito qualcuno o forse chissà, e poi manca la grande incognita, l’ASINTOMATICO, che poi è uno dei motivi chiave per cui ce ne stiamo tutti a casa, perché potremmo essere malati e non saperlo e accoppare la nonna quando andiamo a trovarla. E non importa se lei avrebbe preferito passare quella che sarebbe potuto essere la sua ultima primavera con il nipote preferendo forse rischiare di morire per il virus, piuttosto che morire per certo di solitudine.

Perché la storia è più o meno questa, sempre: confidiamo su di voi, ma che non vi venga in mente di pretendere di decidere qualcosa. Comunque ogni sera vengono dati i numeri, e vedete non c’è nemmeno bisogno di spiegarne il senso. Ma tutti sembrano contenti, finalmente hanno capito la maestra di matematica, quando dopo un loro sbadiglio diceva, state attenti, perché la matematica vi servirà, ecco infatti ora tutti sanno interpretare questi numeri, all’unanimità, essi significano ancora, ogni sera, qualsiasi essi siano: #STATE A CASA (ancora) #ANDRÀTUTTO BENE. Ma la verità è che molti di loro non sanno nemmeno perché dobbiamo stare a casa, pensano di battere il virus, non sanno che prima o poi dovremmo riaprire le porte e che, nelle zone dove l’epidemia è stata controllata dalle misure restrittive, il virus troverà una popolazione vergine tutta pronta ad essere infettata. Non lo sanno le persone, ma paiono pensarci poco anche i famigerati esperti. Però loro lo sanno bene il senso delle misure: non appesantire la sanità, diluire l’epidemia, dare il tempo a tutti di organizzarsi. Qualcuno potrebbe obiettare che sono io a non conoscere i grandi piani che stanno mettendo in atto. Mi farebbe un immenso piacere e mi sentirei davvero sollevata. Certo mi rimarrebbe il dubbio del perché, mentre su tutti questi numeri inutili ci sia tanta “trasparenza”, i progetti che stanno facendo siano coperti da una specie di segreto di stato. Un atteggiamento se non altro un po’ schizofrenico. Allora chiederei, invece di dare i numeri di morti contagiati ecc. che dessero con precisione informazioni sui prossimi passi, su come intendono gestire le riaperture, su quanto personale dedicato ci sia per trattare i pazienti a casa e in ospedale. Magari anche di quanto materiale si sono riforniti, visto che non c’è giorno in cui non salti fuori che manca ora un reagente, ora una mascherina, ora un infermiere. Vorrei, anche che ogni sera si chiedesse scusa ai medici che sono stati mandati a combattere con un virus sconosciuto, senza che avessero un’adeguata preparazione, a mani nude e sono morti.

Perché l’ho già detto, ma lo ripeto, la prima cosa di cui dovevano assicurarsi era che il personale sanitario e le strutture fossero adeguatamente preparati a trattare con questa epidemia. Non lo è stato fatto all’inizio e dopo, si è dimenticato qualcosa, vedi le RSA, proprio lì dove sta buona parte della popolazione che dovrebbe essere maggiormente protetta. Un giorno forse scopriremo cosa è successo in Lombardia, il perché di questa tragedia, ma fra le ipotesi c’è proprio che siano stati gli ospedali ad amplificarla. Una cosa è certa, la colpa della diffusione del corona virus non è del singolo cittadino, anche se è comodo che vi ricada, come sempre. Vorrei anche che ci spiegassero perché sono così tanto attenti alla nostra salute, ma negli ospedali sono sospese tutte le visite, tutti gli interventi programmati, tutto quello che ha contribuito negli ultimi decenni ad innalzare ulteriormente la nostra speranza di vita, e che faticosamente cerca di resistere alla guerra, questa sì la possiamo chiamare così, che ogni giorno viene fatta alla sanità pubblica. Perché forse ce ne siamo dimenticati, ma voglio ricordarlo io, si muore per tumore, si muore per infarto e per ictus, e per tante altre malattie in cui la prevenzione è importante e che oggi è come sospesa. Vorrei che qualcuno garantisse che questo non è un ulteriore attacco, e che, quando ripartiremo, non si dirà che è necessario appoggiarsi al privato per recuperare il tempo perso. In più, non si può pensare che l’impoverimento generale a cui queste misure portano il paese, e in particolare i cittadini, e ancora più in particolare quelli più deboli, non abbiano gravi conseguenze sanitarie, quando sappiamo ormai da anni che lo stato socioeconomico è uno dei principali determinanti di salute. Un giorno, forse, questo problema sarà superato, anche così. Ma io già da ora sento il dovere di impegnarmi a non dimenticare la peggiore figura, fra le tante, della storia recente che l’Italia ha fatto. Se si potesse, ma ormai è dimostrato che non si può, bisognerebbe che ogni singolo governante, decisore, consulente, intervenuto in questa situazione, educatamente si alzasse e se ne andasse. E lasciasse posto a chi, forse, potrebbe fare meglio, ma difficilmente peggio.

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