Sanità
Questa non è una guerra
Si chiamava Leonardo Marchi, era un infettivologo e dirigeva la casa di cura San Camillo a Cremona. E’ notizia di oggi: lui è il diciottesimo medico, l’ultimo in ordine di tempo, morto per Coronavirus. Qualcuno dice: è un guerra. Io dico: fermiamoci un attimo. Cosa sta succedendo?
Da un mese c’è un epidemia, e ancora, in molti ospedali, c’è penuria dei mezzi più elementari per affrontarla: le mascherine, gli scafandri, gli occhiali protettivi. Ci sono stati perfino medici che, per non farsi contagiare dal virus, hanno usato sacchi dell’immondizia (ad Aosta, scorsa settimana). Ogni giorno che passa, la situazione si fa più grave: il virus sta letteralmente dilagando da Nord a Sud, colpendo anche tra dottori e infermieri, che finiscono a letto, alcuni intubati; altri non ce la fanno e finiscono anche loro nel novero, sempre più alto, delle vittime. Si profila il rischio, più che concreto, che chi si ammala muoia non solo per la malattia, ma perché non si riesce a curarlo e che il paese, prima dal punto di vista sanitario e poi anche economico, finisca al collasso.
Come racconteremmo, come parleremmo di questa cosa noi giornalisti, ma non solo noi giornalisti, se stesse capitando a un altro paese, magari un paese fragile, del cosiddetto Terzo Mondo?
Ecco, io dico che di fronte a una situazione così non parleremmo di guerra, ma di una potenziale, grave, crisi umanitaria. Crisi così – che investono un intero paese e lo schiantano completamente – siamo abituati a vederle da lontano. Di solito siamo noi a spedire infermieri, dottori, mezzi, magari a fare una qualche raccolta fondi, per le povere vittime che vediamo, da lontano, attraverso gli schermi della tivù e le news sui telefonini.
E invece.
Ieri alla Malpensa sono arrivati medici e infermieri cubani. Sono 53 e andranno subito in corsia a Crema. Sempre ieri, all’aeroporto di Pratica di Mare, in Lazio è arrivato un aereo cargo carico di materiale e personale sanitario – provenienza: in questo caso, Russia. E sempre dal paese di Putin stiamo aspettando altri 9 cargo così. I cinesi, poi, è ormai da tempo che ci stanno dando un mano con consigli, uomini, cose.
E in campo ci sono da giorni anche le organizzazioni non governative. Dal 9 marzo, Medici senza frontiere, con ben 25 operatori, è all’ospedale di Codogno. Emergency, a Milano, consegna pasti, farmaci e beni di prima necessità a chi è in quarantena; ma non solo, gli uomini e le donne di Gino Strada sono al lavoro anche Brescia e presto lo saranno anche nell’ospedale che ospiterà solo pazienti Covid a Bergamo. Una ong americana, Samaritan’s purse, ha aperto un ospedale da campo a Cremona. Un’altra no-profit americana che si chiama Hope ha donato ventilatori polmonari alla Lombardia. Ancora deve arrivare il colpo, durissimo, della chiusura di fabbriche, uffici e negozi. Ma all’emporio solidale di Garbagnate, gestito dalla Caritas, gli accessi sono aumentati, da fine febbraio dell 30%.
Quelli che hanno bisogno di aiuto siamo noi, questa volta.
Come siamo finiti così? Com’è possibile che un paese come il nostro, uno dei più ricchi al mondo, stia patendo così tanto; molto di più di Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud che il virus l’hanno praticamente già messo alle spalle? Com’è che nella sola Lombardia, ci sono state più vittime che in tutta la Cina che fa oltre un miliardo di abitanti? E di nuovo e a proposito dei medici e personale sanitario di cui parlavo all’inizio: com’è possibile che in Italia si siano infettati, in un mese, più operatori che in tutta la Repubblica popolare cinese che ha combattuto il coronavirus per mesi?
Sono passate quattro settimane e invece di avere uno stato che distribuisce mascherine ai cittadini, ci sono aziende e privati che donano mascherine e altri dispositivi di protezione allo stato. Ma vi pare normale?
Raccontare questa storia come una guerra non ci sta aiutando a capire e a rispondere a queste e ad altre domande fondamentali – vedi il ruolo dell’Europa – su cosa non abbia funzionato.
Qui non c’è nessun nemico, c’è una malattia da curare. Non bisogna uccidere nessuno, anzi dobbiamo cercare se possibile di salvare tutti. Non ci sono trincee, ma corsie d’ospedale. E se io non do a medici e infermieri tutti gli strumenti per proteggersi dal virus, se io li faccio lavorare il triplo del normale anche perché nel frattempo i colleghi continuano ad ammalarsi uno dopo l’altro, non faccio di loro degli eroi, ma delle vittime o delle potenziali vittime.
Ed esporre medici a rischi che si possono evitare non è solo vergognoso, è stupido. Medici e personale sanitario per l’appunto non sono fanti o marines: se qualcuno “cade”, non puoi semplicemente addestrare velocemente qualcun altro, mettergli un camicie sulle spalle e mandarlo in “battaglia”. Per fare di un medico, un infermiere o un operatore sanitario un buon medico, un buon infermiere, un buon operatore sanitario non basta qualche rudimento e uno stetoscopio al collo come nelle fiction. Ci vogliono anni di studio e di esperienza. Non solo. Questi non sono mestieri che può fare il primo che passa: ci vogliono doti non comuni e una vera e propria vocazione. Sacrificarli è una follia: quanti saperi, medici come Leonardo Marchi, che aveva una sessantina d’anni, avranno portato via con se e non potranno più trasmettere ai giovani?
Magari, per qualcuno, parlare di battaglie e trincee potrà anche essere un bell’esercizio di retorica. Lo è sicuramente per Angelo Borrelli, della Protezione civile, che ogni sera alle sei del pomeriggio, mentre fa la conta dei “caduti”, ci ammannisce una metafora bellica dietro l’altra. E lo è stato pure per il nostro presidente del consiglio, Giuseppe Conte, che in un post su Facebook, dicendo che questa era la nostra ora più buia, ha perfino scomodato Winston Churchil e la seconda guerra mondiale.
Ma i militari, che pure sono stati mandati dal governo a pattugliare le strade, il virus non lo possono prendere a fucilate. E invocare la patria unita serve a niente, se non a respingere le critiche. Qui ci vogliono soluzioni. E sopratutto chi ha sbagliato, deve prendersi le sue responsabilità, perché è evidente – al di là degli slogan – che no, non sta andando tutto bene. Manco per niente.
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