Famiglia

Volete un figlio stressato ma di successo? Siate autorevoli

21 Agosto 2015

Maurizio e Giuliano sono fratelli. Anche se Maurizio ha tre anni più di Giuliano, per molte  cose i due trentenni si assomigliano molto: tutti e due vivono in una città del Nord, votano centrosinistra, tifano la Juventus, amano i film con DiCaprio e i romanzi di Wilbur Smith. Il primo però guadagna quasi 3mila euro al mese, il secondo non ha un lavoro e vive ancora con i genitori. «Dal punto di vista della carriera, io e Giuliano siamo un po’ agli antipodi. – ammette Maurizio di fronte a una birra – Siamo andati tutti e due al liceo classico, poi però io mi sono laureato in giurisprudenza, lui ha mollato lettere dopo pochi esami». [1]

Per Maurizio, che lavora nell’ufficio legale di una grande azienda, la situazione lavorativa del fratello è da imputare, più che a Giuliano in sé, «all’educazione impartitagli dai nostri genitori. Con me sono stati molto severi, hanno sempre preteso il massimo sia nello studio che nella vita: media costante dell’otto, a letto presto, niente uscite con gli amici se non il sabato sera, poca tv e tanti libri. Con lui, che era il piccolo di casa, sono stati molto più soft, permissivi in un modo forse eccessivo». Ora Maurizio è preoccupato: «Io voglio molto bene a Giuliano, però a 31 anni si ritrova senza un lavoro, senza una donna, senza una laurea».

La storia dei due fratelli sembra confermare un’idea che inizia a far breccia tra economisti e sociologi: il parenting, ossia il modo in cui i genitori crescono i figli, conta. Perché è uno dei fattori dai quali dipende la riuscita (professionale, ma non solo) dei rampolli nel medio-lungo periodo. Dunque cos’è meglio ? Lo stile genitoriale permissivo che secondo Maurizio ha rovinato il fratello, quello autorevole amato dai genitori “dirigisti”, o quello autoritario all’insegna del proverbio “Mazze e panelli fann’ i figli belli” ?

Leonardo, cinquantenne siciliano con una laurea in ingegneria (e due figli grandi), non ha dubbi: «Serve affetto, calore e comprensione, però anche educazione al rispetto delle regole e all’apprezzamento dei valori. L’esempio è fondamentale. E nella fase dell’immaturità pure qualche ceffone può far bene. L’imposizione qualche volta aiuta a far capire al bambino che esistono dei ruoli e delle gerarchie». Marco, quarantenne friulano con un diploma di perito industriale, la pensa diversamente: «Il compito del genitore è aiutare il bimbo a diventare un adulto, una persona autonoma e capace di badare a se stessa. Salvo casi eccezionali, bisogna lasciarlo libero di commettere i suoi errori, perché solo così potrà crescere e maturare. Come padre ho sempre fissato pochi paletti: niente droga, niente violenza, niente cattiveria. La vita è tua, e se sbagli te la cavi da solo». Oggi il figlio di Marco fa il cuoco a Monaco, dove vive con la compagna e la figlia piccola. «Per un po’ di tempo ha fatto parte di un gruppo metal, ma a parte infastidire un po’ i vicini con il rumore, non ha mai creato problemi», conclude Marco ridendo.

Fabrizio Zilibotti è un economista emiliano che insegna all’Università di Zurigo. 50 anni, ex docente a Londra e Stoccolma, è autore con il collega Matthias Doepke del paper “Parenting with style: altruism and paternalism in intergenerational preference transmission”. La tesi dell’articolo, che ha destato anche l’interesse dei media, è che «la scelta dello stile genitoriale è guidata dagli incentivi. I genitori soppesano i costi e i benefici attesi dall’implementazione di un dato stile di parenting».

«Cosa determina lo stile genitoriale ? Noi crediamo che il fattore economico sia importante – spiega Zilibotti agli Stati Generali, che lo hanno intervistato al Festival dell’Economia di Trento –. In passato i figli facevano quello che facevano i padri. Si trattava infatti di società tradizionali, dove elementi come l’obbedienza avevano più peso delle capacità critiche. Lo stile genitoriale in voga era quello autoritario: i genitori imponevano ai figli di comportarsi secondo modelli da essi approvati». Lo stile autoritario era «spesso accompagnato da interventi coercitivi e punitivi, anche di natura corporale – continua l’economista –. Però con l’avvento della scolarizzazione di massa e il crescere della mobilità occupazionale, lo stile autoritario ha perso efficacia. Diventa più difficile nella società contemporanea controllare i figli e imporre delle restrizioni».

Negli anni ‘20, nel paese astigiano di Vinchio, c’erano solo le prime tre classi elementari. «Per andare a zappare» si diceva «ne sanno anche troppo» – scriveva Davide Lajolo nel romanzo autobiografico “Il voltagabbana”. E in effetti sino a un secolo fa l’europeo figlio di contadini o emigrava in America o probabilmente restava contadino. Per il suo stesso bene doveva imparare a ubbidire: al padre, al padrone, al prete, al caporale. Oggi non è più così. Creatività, indipendenza e buoni livelli di istruzione sono requisiti cruciali. Trasformare un figlio in un automa, attraverso uno stile autoritario, non è più conveniente.

Le opzioni rimanenti sono due, osserva Zilibotti: «La prima è quella “permissiva”, vale a dire concedere ai figli maggiore libertà, permettendogli di trovare indipendentemente la propria strada. Tale strategia comporta il rischio che i figli facciano scelte che gli adulti di solito disapprovano, come le esperienze con droghe o altri comportamenti adolescenziali giudicati pericolosi. Pensiamo al filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau che scriveva nell’Émile che i giovani possono imparare solo sperimentando le conseguenze dei propri errori». C’è poi l’opzione «autorevole-assertiva, in cui i genitori cercano di influenzare fin dalla tenera età di cambiare il modo in cui bambini ed adolescenti ragionano, instillando in loro i valori che piacciono agli adulti».

Serena ha appena compiuto trent’anni. Un dottorato in letteratura americana alle spalle, una promettente carriera nella comunicazione di fronte. «I miei genitori sono stati autorevoli, per esempio mi hanno inculcato sin da piccina l’idea che se uno si prende un impegno deve portarlo a termine, a qualsiasi costo. Questo probabilmente ha contribuito ai miei successi accademici, però mi ha un po’ complessato, e reso facile preda dei sensi di colpa», racconta a Stati Generali.

Secondo Zilibotti, a scegliere lo stile autorevole sono i genitori che devono crescere i figli in società molto competitive e sempre più diseguali, come gli USA o la Cina. Dove per emergere bisogna studiare moltissimo, eccellere in qualche attività, ed entrare in un’ottima università come quelle dell’Ivy League, o equivalenti cinesi quali la Peking University e la Fudan. Non a caso è da Stati Uniti e Asia che vengono figure come le “madri-tigre” (Cina), i “curling parents” (USA), le “kyōiku mamas” (Giappone), le “dwaeji omma” (Corea del Sud). Genitori severi ed esigenti, molto attenti a ogni scelta dei figli. Che sin dai primissimi anni di vita del pargolo si attivano per mandarlo nell’asilo nido migliore, insegnargli una o due lingue straniere, trasformarlo in un piccolo Chopin o un novello Agassi.

Al contrario i genitori del Nord Europa preferiscono lo stile permissivo. Sanno che i loro figli vivranno e lavoreranno in società (relativamente) poco competitive, con buone reti di welfare. Dove il senso critico e la creatività sono doti molto utili in un mercato del lavoro sempre più basato sul terziario avanzato. Come si legge nell’articolo di Zilibotti e Doepke, «noi dimostriamo che in paesi con un basso tasso di diseguaglianza come la Germania o le nazioni scandinave, i genitori danno più peso a valori come “indipendenza” e “immaginazione” che a valori come “importanza del duro lavoro” o “obbedienza”. L’opposto si verifica negli Stati Uniti o in Cina».

Zilibotti nota: «Non è un caso che Amy Chua, autrice del libro “Il ruggito della mamma tigre”, sia cinese-americana. Vorrei anche citare la biografia di Robin Li, fondatore del motore di ricerca Baidu, oggi il secondo uomo più ricco della Cina. Di origini modeste, Li si è fatto strada attraverso l’eccellenza accademica, approfittando della natura meritocratica del sistema cinese. In quanto miglior studente della provincia dello Shanxi, Li fu ammesso alla prestigiosa Peking University, per poi guadagnarsi una borsa di studio per l’Università di Buffalo. Quella fu la rampa di lancio verso il successo. Benché estrema, la storia di Li è quella che milioni di famiglie cinesi inseguono. È il sogno cinese. La ricetta per i figli è semplice: lavoro, lavoro, lavoro…»

Negli Stati Uniti e in Asia, però, crescono le critiche verso uno stile genitoriale troppo autorevole. Una ricerca pubblicata un paio di anni fa sull’Asian American Journal of Psychology sostiene che i ragazzi delle madri-tigre (o mamme-maiale, nella versione sudcoreana) sono emotivamente vulnerabili, distanti nei confronti dei familiari e soprattutto non vanno così bene a scuola come si pensa comunemente. In Corea del Sud, dove la competizione per entrare nelle tre migliori università del paese è altissima, il crescente numero di studenti così stressati da suicidarsi è diventato una vera e propria emergenza nazionale. Secondo un’indagine internazionale del 2014, a causa delle eccessive pressioni accademiche i giovani coreani sono meno soddisfatti della loro vita dei coetanei occidentali. «Essere un bambino sudcoreano ha poco a che fare con la libertà, la scelta personale o la felicità; riguarda la produttività, i risultati e l’obbedienza», sostiene lo studioso di Yale See-Wong Koo.

La grande trasformazione nello stile genitoriale europeo è avvenuta negli anni ’70, guarda caso all’apice delle contestazioni studentesche (e soprattutto del boom industriale). Proprio mentre in tutto il Vecchio continente fiorivano i sistemi di welfare e si raggiungevano livelli di prosperità inaudita, si passava da uno stile autoritario a uno permissivo. Agli albori del XXI secolo, in coincidenza con il trionfo del neo-liberismo e i crescenti tagli al welfare, si è verificata una nuova metamorfosi genitoriale, con il passaggio da uno stile permissivo a uno autorevole.

Nessun banchetto è eterno sotto il sole, dicono i cinesi. Neanche in Scandinavia, dove mamme e papà stanno cambiando il loro stile genitoriale ultra-permissivo. Secondo David Eberhard, psichiatra svedese autore del bestseller “Hur barnen tog makten” (Come i bambini hanno preso il potere), «i genitori svedesi pensano di sapere meglio del resto del mondo (e dei loro genitori e dei loro nonni) come crescere i figli. Il mio libro dice che non è vero». Il saggio di Eberhard si basa su studi che dimostrano come «i bambini siano molto più resistenti di quello che pensiamo, e noi come genitori non possiamo cambiare la loro personalità né traumatizzarli facilmente. Per questo motivo non dobbiamo ascoltare i vari tipi di esperti che ci dicono che dobbiamo essere sempre democratici, che non dobbiamo mai criticare o perfino lodare la prole. Se uno è un genitore abbastanza bravo basta e avanza».

Per Eberhard c’è un altro problema. «In Svezia abbiamo bambini molto felici e adolescenti infelici. Penso che questo abbia a che fare con aspettative di vita troppo alte e una società che non pone mai dei paletti e non dice ai bambini di farsi un bagno di realismo. Non tutti possono diventare come Zlatan Ibrahimović. Abbiamo un sacco di giovani che stanno male quando finalmente capiscono che non possono essere tutto quello che vogliono. Non hanno mai saputo di avere degli obblighi perché tutti gli adulti gli hanno detto che hanno soltanto diritti».

«I miei hanno fatto il ’68, e questo ha contribuito a renderli genitori indulgenti, forse troppo – dice a Stati Generali Lucrezia, ventenne laziale di professione cameriera –. Mi hanno sconsigliato il classico perché dicevano che era troppo stressante, mi hanno spinto verso scienze politiche anziché economia perché conoscevano la mia passione per la politica… In fondo loro non si sono mai impegnati molto nello studio o nel lavoro, però hanno avuto comunque tutto: un posto sicuro, tre mesi di vacanze l’anno, l’eredità dei nonni. Non li definirei privilegiati (i privilegi sono altri), ma fortunati sì. Ecco, io non avrò queste fortune. Non trovo uno straccio di lavoro decente, e se continua così emigro».  Forse, alla fine, ha ragione Leonardo. Per crescere decentemente dei figli servono affetto, comprensione e (all’occorrenza) un po’ di mano ferma. Nella consapevolezza che nessuno è perfetto: nè i figli nè i genitori, e tantomeno quelli che danno consigli agli uni e agli altri.

* * *

[1] I nomi dei due fratelli, come delle altre persone intervistate, sono stati cambiati, per ovvi motivi di riservatezza. Lo stesso vale per alcuni dettagli privi di rilevanza.

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