Salute mentale
Strumenti psichiatrico-psicoanalitici per l’analisi dei testi narrativi
Il velleitarismo di Freud di estendere l’applicazione della psicoanalisi a tutte le aree della vita delle persone, non ha risparmiato neppure la letteratura. Gli esiti di questa operazione sono però apparsi piuttosto semplicistici e meccanici (l’esempio più rilevante è quello del commento freudiano alla Gradiva di Jensen, del 1902). Ma la tentazione è stata presente anche in altri analisti: basti rinviare, per esempio, all’interpretazione di Amleto da parte di Jones, del 1949 o la monumentale biografia di Poe di Marie Bonaparte del 1933. Qui bisogna però fare una riflessione di sociologia della cultura (e forse delle istituzioni). L’ambito culturale della letteratura (narrativa, poesia, teatro, e bisognerebbe aggiungerci la linguistica) è un’entità sociale, reale e virtuale che, come tante altre entità collettive è quanto mai chiusa nel senso che la partecipazione esterna attiva è subordinata all’accettazione di procedure, metodi, linguaggi specifici. Un critico letterario, sia pure anche quando è al massimo della innovatività, deve sempre rifarsi ad un substrato di base che ne è, sia pure con accanite controversie, il presupposto. D’altra parte la forte coesività interna tra autori, critiche e mercato editoriale, ha elaborato un sistema difensivo per non permettere l’intrusione di altri campi ed aree estranee. In altre parole, nessuno che non appartenga, sia pure solo virtualmente, all’area della letteratura, può pretendere di entrarvi con propri strumenti e linguaggi. Ma la psicologia in generale e la psicoanalisi in particolare, hanno subito un percorso ideologico che le ha portate, dallo studio della clinica e delle caratteristiche di base della psichicità alla pretesa di occuparsi di tutte le manifestazioni umane, proprio anche quelle considerate normali. E quindi la legittimità ad occuparsi non solo di autori e fruitori ma anche dei personaggi e del substrato narrativo delle opere letterarie.
Il mio intervento, quindi, rientra nella tentazione seduttiva, come appartenente alla comunità psicoanalitica, di “invadere” l’area letteraria senza la “dovuta” umiltà di semplice spettatore, facendo sfoggio degli strumenti specifici della mia disciplina. Spetta ai sociologi (sempre che ce ne siano ancora) il compito di analizzare le collisioni tra aree culturali, e non solo. Mi si farà notare che ormai da tanto tempo il giudizio sulle opere letterarie o più in generale artistiche, ha assorbito concetti, soprattutto psicoanalitici (basti pensare all’inconscio o al narcisismo). Ma questo assorbimento è spesso sia solo un’operazione semantica di innovazione linguistica, sia anche una frammentazione di concetti sottratti al loro posizionamento in modelli specialistici. Penso che un linguista, amante degli strumenti statistici informatici, potrebbe facilmente identificare quantitativamente nei vari commenti letterari, la prevalenza assoluta di concetti di uso comune o resi un poco più ricercati. Quelli che noi, snobisticamente, definiamo Folk Psychology o psicologia popolare. Ora il presupposto dei modelli psicoanalitici e più in generale psicologici, si riferisce a strutture di intensità variabile, profonde, dinamiche, cioè in continua trasformazione. Noi ci occupiamo di processi psichici e non di singole unità o soggetti. Quindi introdurre un termine come “narcisistico” senza collocarlo nello specifico processo di quel soggetto, diventa solo una generalizzazione semantica. E’ chiaro che l’accusa che ci si può fare è quella di “patologicizzare” la psichicità umana, anche quella che si considera normale. Ma sulle suddetta “normalità” avremmo molte cose da dire.
Vorrei dare un esempio di come si possa utilizzare uno strumento psicoanalitico nella critica ad un testo letterario. Prenderò come esempio un testo scolastico tradizionale sul quale sono stati scritti cumuli enormi di commenti. E cioè “I Promessi Sposi”. Tralascio tutte le considerazioni di ordine ideologico, storico-sociologico, stilistico formale e simili. Mi concentro su due personaggi che, secondo me, sono la chiave di volta del romanzo. Cioè Fra Cristoforo e l’Innominato. Assistiamo alla descrizione di due caratterologie analoghe sia all’esordio del processo sia come esito trasformativo. I caratteri di partenza sono classificabili in un’onnipotenza maniacale che deve affidarsi all’aggressività per raggiungere i propri obbiettivi sia edonistici che difensivi. Ma il Manzoni, acutamente, fa trasparire l’insoddisfazione per la carente gratificazione che la spinta maniacale appoggiata allo strumento aggressivo produce. Cioè non viene raggiunto quello stato narcisistico di completa autosufficienza che non necessità più di azioni nella realtà. Senza questa condizione e cioè se i due personaggi fossero due narcisisti perfetti, non potrebbe avere luogo, la trasformazione. La trasformazione avviene, descritta nella narrazione, con tempi diversi, ma con un catalizzatore che può essere ricondotto al concetto cristiano della Grazia. C’è analogia, sia pure teorica, con l’interpretazione dell’analista che non solo ripropone un’altra realtà, ma la legittima. Solo che l’esito che in termini kleiniani potrebbe essere considerato come depressione riparativa o in termini freudiani accettazione della realtà edipica, non raggiunge questi obiettivi e invece fa raggiungere ai due personaggi uno status narcisistico perfetto che è in pratica la vera funzione psicologicamente costitutiva della Fede (ad onta dei vari conclamati propositi delle opere di bene ecc.). Non chiamare narcisismo l’unione totale con Dio è un po’ arduo.
Cioè Manzoni non raggiunge quindi l’obiettivo di trasformare i suoi personaggi sofferenti in un rapporto di reale edonismo di oggetto. Cerca di farlo con personaggi minori e cioè i due poveri fidanzati che in fin dei conti potranno sposarsi con un finale di pranzo di nozze che richiama un edonismo semplicistico, ma per lo meno reale. E poi si potrebbero dire tante altre cose sul sadismo perverso che trapela dall’introduzione, anche gratuita, della Monaca di Monza o di quelle figure degli untori ai quali specificatamente il Manzoni dedicherà un oltreché drammatico anche sanguinoso spettacolo della loro esecuzione nella Colonna Infame.
Ma se noi vogliamo considerare anche un altro processo trasformativo, prendiamo come esempio la protagonista di Madame Bovary. Qui passiamo da una sua cupa depressione sullo sfondo di una Francia provinciale ottocentesca, al tentativo maniacale di superarla mediante l’erotizzazione. Solo che tale maniacalità diventa irrefrenabile e la porterà ad una tristissima rovina. Qui Flaubert non salva nessuno. Come avviene anche nei suoi due altri importanti romanzi: Salambò e L’educazione sentimentale.
Ora, concludendo, lo strumento di analisi delle vicende caratteriali deve passare attraverso quella che letterariamente chiamiamo narrazione e che noi intendiamo come processo trasformativo. Ed è proprio nell’identificarsi in questo processo, che il lettore, guardandosi bene dal riconoscerlo in sé , prova attrazione per il testo. Anche se non è consapevole, ma l’identificazione, sia come interiorizzazione che proiezione, è un processo automatico. Cioè Madame Bovary entra e si costituisce come parte del nostro Sé.
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