Salute mentale
Radicalizzazione psicologica del conflitto palestinese
La tragedia che si sta svolgendo in Palestina con le reciproche cruenti azioni di fuoco, ha toccato anche gli spiriti del pubblico che la notte del Covid aveva ed ha ampiamente colonizzato. L’impatto visivo degli edifici che si “vaporizzano” sotto gli attacchi aerei e il, si fa per dire, attraente spettacolo notturno delle scie dei missili in arrivo e dei missili che li contrastano, con il continuo supporto tragico di morti e feriti, si è imposto sulle noiose discussioni perpetue sul Covid che giornalisti saccenti e medici volonterosi di protagonismo, ogni giorno rappresentano in tv.
Non è che il Covid sia stato ed è uno scherzo: il numero dei morti e le esigenze di dure restrizioni hanno inciso sulla quiete apparente del tran tran quotidiano. Lo stesso obbligo fastidioso di portare la mascherina, specie di simbologia di un sacrificio più ampio al quale dobbiamo sottostare, rappresenta un perpetuo ammonimento a non cercare di fuggire. Ora il Covid, possiamo affermare, ha abbastanza consolidato una certa solidarietà sociale: si è tutti nella stessa barca. È vero che vi sono stati contrasti su talune visioni della libertà personale e dei danni economici di molte persone, ma sono contrasti che non hanno raggiunto un certo grado di visceralità come l’impatto della visione della violenza bellica ci sta somministrando.
Si potrebbe affermare che il conflitto palestinese è ancora poca cosa, per esempio, rispetto al conflitto, violentemente cruento e distruttivo che per molto tempo (e non è ancora terminato) ha insanguinato il Medio Oriente: Siria e Iraq. Per non parlare della molteplicità di guerre e guerriglie che sono in atto in varie parti del mondo.
La recrudescenza del conflitto palestinese però sembra avere un carattere particolare. E non solo per una certa, relativa, vicinanza della regione ma, a mio giudizio, per due ordini di problemi. Il primo, astraendosi se è possibile dagli intricati motivi e circostanze storico-politiche che lo hanno sviluppato e lo tengono vincolato ad una prevedibilità incerta di risoluzione, riguarda, il vissuto psicologico di uno scontro tra due “culture”,”civiltà” o, addirittura “razze”. Ad onta di tutti i buoni sentimenti ugualitari interculturali che, dopo le barbarie naziste, si è cercato di diffondere e fare prevalere, il pregiudizio della diversità continua ad agire psicologicamente a tutti i livelli. Basti pensare, sul piano sociologico, agli atteggiamenti pesantemente discriminatori nei riguardi di immigrati, di specifiche classi sociali, dei cosiddetti marginali e simili. Ma la discriminazione scende anche ai livelli inferiori e magari banali. Basti pensare al tifo sportivo, soprattutto qui da noi, quello calcistico che appare come una dilatazione degli antichi odi tra città e contrade medievali.
L’atteggiamento discriminatorio è un meccanismo continuamente in azione, anche nelle relazioni interpersonali e viene alimentato da una diffusione quotidiana mediatica di valori e ideologie spesso sottilmente differenzianti. Siamo costretti come in qualsiasi contrasto a prendere posizione poiché ci identifichiamo con gli uni o con gli altri (i meccanismi di identificazione sono, arrivando perfino alla noiosità, la base psichica della nostra relazionalità sociale: ci vogliamo bene perché ci identifichiamo. Ci odiamo perché abbiamo identificato le nostre parti “cattive” nell’altro).
Ora, tra palestinesi e israeliani c’è una scelta di di identificazioni “buone” e di proiezioni di “identificazioni “cattive”, che poi la contingenza storica e l’azione delle leadership politiche ci mettano, purtroppo, anche un peso sconvolgente, è ovvio.
In genere a sinistra ci si identifica con i palestinesi in nome di un presupposto egualitario, ma non solo: Israele è visto come una base geopolitica imperialista degli Usa nel Medio Oriente.
Si sta, invece, dalla parte di Israele perché è un bastione contro la marea” barbaroide” dell’islamismo. E poi gli Israeliani, più o meno, ci assomigliano come aspetto fisico, per abbigliamento, per abitudini. E soprattutto sono molto più efficienti e chi è a destra ammira molto questa qualità.
Ma ci sono anche le contraddizioni. Chi è a sinistra non può ignorare la storia della Shoà (magari sorvolando sul fatto che gli Stati europei sia liberali che comunisti, avevano facilitato l’esodo ebraico per sbarazzarsi di questa minoranza fastidiosa, invece di debellare definitivamente l’antisemitismo nei propri confini). E per quelli di destra , almeno i più estremisti, l’antisemitismo fa loro rammentare il periodo “luminoso” del razzismo ariano. Insomma, questi ebrei o sono al servizio dell’imperialismo o portano su di sé, le stimmate colpevoli che per circa 1500 anni il Cristianesimo ha profuso su di loro.
Ma perché devono agire questi meccanismi discriminatori? Perché le leadership politiche delle rispettive parti sono i principali responsabili, con le proprie azioni, del loro rafforzamento. Cioè la spirale paranoide colpisce tutti e si rafforza vicendevolmente. E le buone e sensate posizioni equidistanti? Funzionano male, poiché fragili sia davanti all’incalzare degli eventi sia per la continua propensione discriminatoria in atto.
Ma c’è un altro problema che ha radicalizzato gli atteggiamenti. È il cambiamento enorme delle tecnica operativa bellica. Cambiamento già in atto dalle operazioni contro la Serbia, le guerre del Golfo, e le operazioni attuali in Siria ed Iraq contro l’Isis. Cioè l’assoluta prevalenza della potenza di fuoco negli scenari operativi. Cioè non ci sono più le “belle” operazioni di carri armati e di aerei della seconda Guerra Mondiale. Qui si rovesciano volumi enormi di fuoco, mai raggiunti prima sugli avversari e soprattutto sui grandi aggregati urbani, poiché e in questi che si è spostato il livello delle operazioni. E non c’è bisogno neppure delle armi atomiche: gli esplosivi attuali e la perfezione dei vettori per trasportare tali cariche distruttive ha raggiunto gradi di perfezione straordinari. Questo spiega perché Hamas, che in passato scagliava solo ogni volta due o tre razzi costruiti con i tubi delle stufe, oggi satura di missili i cieli di Israele neutralizzati solo per circa un terzo dai missili contraerei israeliani. Davanti a questa Apocalisse si può restare sbigottiti e impotenti ma anche, per difendersi dal terrore indotto, stare o da una parte o da un’altra, per farsi proteggere da chi si ritiene e si desidera che sia il più forte ed efficiente.
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