Salute mentale
Psicopolitica: il trauma psichico del crollo del ponte si estende ai politici
I traumi psicologici per eventi collettivi o personali sono oggetto da un po’ di tempo della clinica. Le origini di questo interesse appartengono all’ambito bellico e sono emersi, pubblicamente, in tutta la loro forza negli USA, per la guerra del Vietnam. Oggi questa attenzione si è estesa a qualsiasi tipo di trauma e ha portato a un’etichettatura nella Bibbia della psichiatria (il DSM) sotto la definizione di PTDS (Post-traumatic demoralization syndrome).
Criteri diagnostici e vari tentativi di terapia ne sono attualmente un’ampia conseguenza.
Ma quello che qui ci interessa è fino a che punto possiamo fare delle ipotesi sulle conseguenze psichiche di traumi collettivi derivati da catastrofi. E che vadano al di là dell’incidenza individuale, colpendo la collettività e in modo specifico la classe dei politici, soprattutto quelli che hanno, in questo momento un potere decisionale.
Ora il disastro di Genova, al di là degli effettivi lutti, danni, responsabilità e difficoltà ricostruttive, si distingue dalle analoghe calamità tipo terremoti ecc. perché da un lato presuppone una possibile responsabilità di persone e società, e dall’altro lato, nella fattispecie, colpisce una città grande e importante. Quindi non ci sono solo le conseguenze reali, ma anche il profondo significato psicologico che si attribuisce ad essa. Usando i paradigmi psicoanalitici una città può essere vissuta come una grande entità materna (in italiano il nome delle città è femminile…), che racchiude, protegge e fornisce la vita. Ora se il rapporto tra cittadini e città è così simbiotico, è chiaro che la mutilazione, oltretutto visibile e letteralmente “incombente”, suscita un senso di smarrimento e di vulnerabilità che poi non colpisce solo gli abitanti ma si trasferisce, per identificazione, all’intera comunità. Lo choc traumatico nazionale dell’attentato alle Torri Gemelle di New York ne è un esempio.
Ma cosa c’entrano in questo i politici, soprattutto quelli in carica con effettivi poteri decisionali? Sempre utilizzando i paradigmi psicoanalitici, possiamo anzitutto considerare la funzionalità protettiva” paterna” della quale i governanti sono investiti, proprio da quella regressione alla vulnerabilità infantile che la traumatizzazione catastrofica ha indotto.
Non sto parlando delle effettive responsabilità, magari giudiziarie, dei politici che non hanno saputo prevedere la catastrofe, ma del fallimento di una funzione protettiva (paterna o adulta, appunto) delegata a un livello implicito, sia pure secondo uno schema infantile irrazionale.
Quindi gli stessi politici sentono che la catastrofe colpisce anche quell’immagine di Sé sulla quale tanto si danno da fare, quotidianamente, per mantenere, consolidare, e magari estendere, il consenso.
Quali sono le reazioni? Sappiamo che spesso le persone traumatizzate riescono o cercano di superare le ferite psicologiche degli eventi negativi ai quali sono sottoposte, mediante i meccanismi che consideriamo di difesa quali la negazione, rimozione e totale o parziale “smemorizzazione”.
Anche questo farà chi ha il potere decisionale, ma è un processo nel tempo. È necessario agire subito per de-colpevolizzarsi e offrire anche una vittima sacrificale che lenisca il senso di smarrimento della collettività. Se poi ci sono dei responsabili veri il compito è ampiamente facilitato: le esecuzioni in piazza, oltre ad adempiere ad altre funzionalità sociali quali il deterrente per le potenziali analoghe devianze e la gratificazione sadica degli spettatori, servono a recuperare quel ruolo paterno protettivo che tranquillizzi le vulnerabilità collettive.
C’è solo un particolare che può apparire marginale. Nella clinica delle traumatologie psichiche, ci si accorge che l’evento catastrofico lascia una traccia, anche se consapevolmente minimizzata, che dura nel tempo e, addirittura, modifica dei tratti caratteriali. La catastrofe di Genova lascerà questa traccia?
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