Salute mentale
Psicopolitica: la cattiveria del leader legittima la cattiveria di ognuno
Se pensiamo ad un leader veramente “cattivo”, citiamo subito Hitler, riconoscendo che era un soggetto psicopatico paranoide e quindi se avesse trovato un buon analista, ci saremmo risparmiati 50 milioni di morti (a prescindere dal fatto che la 2° guerra mondiale l’avrebbe scatenata anche la democraticissima repubblica di Weimar, in quanto logica conseguenza della conclusione del primo conflitto). Ma resta invece il problema: come mai il popolo tedesco abbia seguito questo matto gareggiando quanto a crudeltà con lui stesso.
La questione non è soltanto storica ma investe anche tutte le presenti affermazioni e decisioni di leader che, però, almeno nel nostro mondo occidentale, non raggiungono i limiti cruenti del nazismo ed altri regimi.
Tuttavia producono effetti di intolleranza violenta, non solo a parole ma anche, spesso, nei fatti.
Ora proprio questa intolleranza serve a uomini politici a rafforzare il proprio consenso.
Dobbiamo scendere anzitutto nella psicologia individuale. Le tendenze aggressive, presupposto per la “cattiveria”, possono avere origini diverse e, ancora oggi, non è che le ipotesi al riguardo siano esaustive.
Che si tratti di componendoti neurofisiologiche (noradrenalina, dopamina, serotonina e c.) tipiche di ogni specie animale, oppure di reazioni a frustrazioni, oppure mezzi per arrivare alla gratificazione oppure prodotti di circostanze sociologiche, il problema resta. E cioè la reattività aggressiva è presente in tutti, con varie modalità, intensità, durata. Vi è però uno spartiacque non indifferente tra la confabulazione aggressiva che accompagna ogni momento della giornata e il comportamento effettivo di aggressione che può raggiungere anche la violenza più efferata.
E qui abbiamo il secondo termine della faccenda: bisogna trovare un oggetto sul quale scaricare questa aggressività. Come analisti pensiamo che trovare l’oggetto-bersaglio, fantasticato o reale, diventi fondamentale altrimenti l’aggressività si ritorcerebbe su noi stessi (qualche ipotesi sulla depressione va verso questa direzione). Ora probabilmente non basta prendere a calci una sedia o il gatto. Sono le persone i bersagli preferiti, sia a livello di fantasticazione confabulatoria sia livello di aggressione effettiva, dal verbale all’azione. Da qui l’instaurarsi delle persecutorietà paranoidi che si esplicano nel trovare il colpevole ad ogni costo. Da qui, assommando all’aggressività il piacere del possesso dell’oggetto-persona-vittima, lo sfociare in quella forma di sadismo che possiamo chiamare “cattiveria”.
E qui c’è il terzo atto del processo che sposta la gestione della propria cattiveria personale ad una cattiveria collettiva. È proprio un processo di socializzazione per il quale i miei sentimenti individuali vengono condivisi da altri.
Ma qual è il trigger, il grilletto, che fa scattare questo processo di trasformazione di un atteggiamento individuale in un atteggiamento collettivo?
Poichè l’atteggiamento aggressivo è sul piano sociale represso o meglio regolato (per mantenere la coesività collettiva) e quindi in ogni caso suscita, magari ampiamente represso a livello di consapevolezza, sensi di colpa, qualcosa o meglio qualcuno, dall’esterno, deve assolverci. Deve cioè legittimare la nostra aggressività e quindi assolverci dalla nostra cattiveria.
Ma questo può farlo solo un’autorità superiore: qualcuno al quale si riconosce o si delega dei poteri di interpretazione di ciò che è male e di ciò che è bene. Cioè l’infantilismo individuale necessita del permesso da parte del genitore che mi protegge (in termini psicoanalitici diciamo che si viene a patti con il proprio Super-Io).
L’identificazione di un bersaglio per la mia aggressività-cattiveria non può esaurirsi nel prendersela con la cognata o il capoufficio (anche se magari con ampie giustificazioni reali). Poiché, per la maggior parte delle persone, tutto ciò non si risolve in un trionfo ma spesso in uno stato di frustrazione.
Cioè mi sento solo. Sul piano collettivo, invece sento la solidarietà di altri che mi rafforza. Metto in comune parti di me con la collettività. È un vero fenomeno di socializzazione (so che le anime belle del sociale si scandalizzeranno a questa affermazione…). Ma se questo mi da la forza necessito sempre del permesso “morale” per superare gli interni sensi di colpa. Il personaggio, come lo si definisce carismatico, si assume consapevolmente (qualche volta anche delinquenzialmente) questo ruolo.
Nella continua trasformazione simbolica che è così comune agli esseri umani (e purtroppo anche dannosa), il leader assume quella funzione genitoriale che, nel bene e nel male, legittima gli impulsi e gli atteggiamenti di chi in ogni caso vive nel pericolo di una regressione infantile immanente (su questo fenomeno, cioè quello del transfert, si basa la prassi del trattamento psicoanalitico).
Ma resta un problema: come mai con alcuni questo fenomeno avviene e con altri no? Vi sono, probabilmente, varie componenti nel dissenso, di tipo sociologico-culturale e anche caratteriale. Varrà la pena, in futuro, di fare qualche riflessione, anche sui “dissenzienti”, per non fare sconti a nessuno.
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