Cibo
Pianto Generale. La Parmigiana di Melanzane (non fritte)
Questa mattina alle sei è squillato il cellulare. Non riconosco il numero e come sempre nelle circostanze inusuali rispondo nella speranza di una notizia buona e inattesa. Per esempio un cacciatore di teste o l’invito a rivedersi di qualche vecchio amore. Quella che invece sento è la voce monotona di Mara che dice “Hai venduto la casa al mare?”. Io e lei in questi anni abbiamo conservato contatti, mai diventati rapporti. Da gennaio mi chiama regolarmente, da numeri sempre diversi. Mara da molto tempo risiede e lavora in una cittadina di mare lungo la costa adriatica. E’ sposata con un uomo rigido e fedele alla famiglia, da cui ha avuto due ragazzi belli, ormai giovani adulti che vanno all’università altrove. La sua ordinaria regolarità non le ha impedito di sottrarsi prima a una certa abitudine al vittimismo, poi all’infelicità, quindi alla sfortuna di una follia delirante che a me arriva attraverso queste telefonate brevi e improvvise nel corso del quale non riesco a interloquire. Provo però a risponderle “Sto pensando di venderla, sì. Con la morte di papà non credo la userà più nessuno e sta andando a pezzi”. “Ah, va bene. L’ho sentito dire”, ma subito smette di partecipare, perché già lontana avanza in un lamento urgente. “Io sono qui, abbandonata in questo guaio, sola, e loro si sono presi tutto. Mio marito prima, ma l’ho capito tardi che in quel corpo lui non c’era più. E non ci sono più da tredici anni nemmeno questi due bambini. Stanno bene. Lavorano”. “Io m’inchino a quella donna, alla moglie del fratello e anche a lui, al signor dottore che si fa mantenere da tutti”. “Io m’inchino a loro, a Internet, alle diavolerie che hanno permesso loro di entrare dentro a Giacomo, Eva e Beniamino, per lasciarmi solo i loro corpi vuoti”. “Io m’inchino a come mi hanno cancellata senza avermi…” Provo a interromperla, “Mara, ma le settimana scorsa mi hai chiamato, Eva e Beniamino erano tornati a casa. A trovarti, me lo avevi detto tu. Pensaci, non sono tredici anni che non li vedi. Mara ti prego, rifletti, altrimenti impazzisci.” “Cosa vuoi saperne tu della pazzia”, ribatte con l’unico cambiamento di tono di questa lamentazione, “tu non puoi fare a me questi discorsi con gli occhi asciutti. Tu vieni dal lato buono della famiglia, tua madre è viva ed era cugina di mio padre. I pazzi e i morti sono tutti dall’altra parte e tu non sai dove sono.” Poi riprende, “Io m’inchino alla signora sopra a una torre. Povero papà aveva provato a dirmelo, ma io ho ascoltato lui, Giacomo, ho sentito loro e ora m’inchino mentre sono qua nella disperazione e nella solitudine.” “Io m’inchino perché ho paura di non riuscire a farmi restituire più nessuno”. Sospende un attimo come se si fosse distratta e chiude, “ora ti devo anche salutare perché non ho molti soldi, ciao Gerineldo, non mi dimenticare, non ti dimenticare più il mio compleanno. Ciao”. “Ciao Mara, fatti coraggio…”. Ma ha già riattaccato. Guardo lo schermo del telefono, in tutto abbiamo parlato per cinquantasei secondi
Mara compie gli anni il 18 agosto, una giornata che era al centro del cuore caldo delle nostre vacanze estive di bambini e poi ragazzi. Ogni anno quella sera ci ritrovavamo a casa sua, di suo padre Luigi e di Dina, la donna che alla morte della madre di Mara lui aveva sposato. Si arrivava da loro senza essersi messi veramente d’accordo, come si fa con gli impegni eventuali, ma il rito è sempre stato rispettato con un rigore che pareva predestinazione. Intorno alle sette, vestiti come per andare a fare una visita, io e la mia famiglia, altri parenti e qualche amico ci presentavamo all’appuntamento. E voleva dire caffè, spumante, bibite e pasticcini per festa e festeggiata. Un po’ tardi, ce lo si diceva ogni volta, ma prima delle sette nessuno sarebbe tornato dal mare. Né diversamente si poteva fare il compleanno, se non ben vestiti e nella casa di paese. Mai in spiaggia o nelle casupole litoranee abusive che a una decina di chilometri da lì avevamo più o meno tutti. Quella della mia famiglia adiacente alla loro. Verso le nove, però, l’ora di cena arrivava comunque e non essendoci ragione per non onorarla, chi voleva andarsene se ne andava a casa sua e chi restava poteva mangiarsi la parmigiana di melanzane non fritte di Dina. Noi siamo sempre restati. Quel mondo del 18 agosto in cui la vita pareva essersi cristallizzata per sempre, ha cominciato a svanire molto prima della follia cupa di Mara, cancellato per noi ragazzi dall’adolescenza matura e dalle vacanze che cominciavamo a trascorrere altrove e per tutti gli altri dalla vecchiaia dei genitori, quella senza rimedio dell’oblio e della morte. Da circa un anno, però, quel mondo è tornato, evocato dalle telefonate improvvise di Mara e dai ricordi di quel tempo semplice, al quale cerco di ridare corpo facendo la Parmigiana secondo la ricetta di Dina che ho provato a ricostruire. E se siamo fuori stagione, chiedo perdono: mangio nostalgia.
Premesse. Parliamo di una teglia di circa 30 per 25 centimetri, che basta per sei. Ci ascolto sopra una compilation di vecchi pezzi cantati dalla giovane Aretha Franklin. Quando dico vecchi, tanto per intenderci, dico roba come I Apologize e Try a Little Tenderness; siamo nel 1962.
Ingredienti. Due melanzane panciute, viola o scure, per un peso di circa 1,2 a 1,4 kg. 300 g di Caciocavallo, che va meglio della mozzarella perché asciutto e saporito, oppure di scamorza. 300 g di Parmigiano umile, tanto squagliato ogni nuance da stagionatura si perde. Una manciata abbondante di basilico. Una bottiglia da 750cc di passata di pomodoro. Aglio, olio, sale, una decina di grani di pepe nero sbriciolati nel mortaio.
Procedimento. Prima il sugo: un po’ d’olio in una casseruola, faccio imbiondire l’aglio e aggiungo il pomodoro, mezzo cucchiaino di zucchero e il pepe. Il sugo può andare una mezz’ora, alla fine aggiusto di sale e tolgo l’aglio.
Spunto e taglio le melanzane nel senso della circonferenza se sono panciute, oppure per il lungo se sono quelle spiccatamente ellittiche. Le fette devono avere uno spessore di mezzo centimetro, io le taglio con un coltello per salumi, con la lama sottile e lunga 25cm. Non ho mai trovato indispensabile cospargere le melanzane di sale e metterle sotto un peso per fare perdere l’acqua amara. Le melanzane oggigiorno non sono più amare. E’ essenziale lo spessore delle fette, non friggendole vanno mantenute sottili. Se le volessi friggere potrebbero essere anche di 1 cm. Preriscaldo il forno a 200 gradi, metto un foglio di carta da forno sulle due leccarde, dispongo le melanzane con minime sovrapposizioni (meglio nessuna) e inforno ad altezza 1/3 e 2/3 del forno (non a contatto col grill, nè con la base). Dopo dieci minuti estraggo, giro le melanzane e inverto l’odine sotto/sopra delle leccarde e faccio trascorrere altri dieci minuti. Due giri di forno, quindi 4 leccarde, bastano per le fette ottenute da due melanzane. Lo so, sono 40 minuti, ma chi si annoia nel frattempo fa altro. Personalmente impiego il tempo tagliando a cubetti piccoli il caciocavallo (o scamorza) e grattugiando il parmigiano col minipimer.
Terminata la precottura/ammorbidimento delle fette, ungo la teglia con olio di oliva, metto sul fondo due o tre cucchiai di sugo e procedo con la creazione degli strati. In merito tre avvertenze: primo una delle ragioni di acidità di molte parmigiane è l’eccesso di pomodoro, quindi stendo il sugo molto attentamente. Secondo, la parmigiana tenderà a essere più condita al centro. Devo dunque usare un cucchiaino per far arrivare fino ai bordi tutti gli ingredienti. Terzo se lo reputo necessario (quando il sugo è troppo dolce) in uno degli strati intermedi spargo una presa di sale. Dopo il fondo procedo quindi come segue: strato di melanzane (sovrapposte per non lasciare buchi nel primo strato), dadini di caciocavallo, foglie di basilico, sugo, parmigiano abbondante. Successivamente ripeto nell’ordine fino all’ultimo strato di melanzane che sarà seguito solo da sugo, parmigiano e un filo d’olio.
Una parmigiana con queste quantità permette di ottenere quattro strati, ovvero l’altezza ottimale. Con melanzane non fritte, fette di mezzo centimetro di spessore, trattate come indicato, la parmigiana va infornata a 180° a mezza altezza e fatta cuocere per 45 minuti. Deve riposare da tre a ventiquattro ore e a mio avviso va mangiata tiepida.
Devi fare login per commentare
Accedi