Costume

Perché il cane pitbull piace così tanto?

12 Marzo 2019

Periodicamente scatta l’allarme sui pitbull. Il cane di turno morde qualcuno, causandogli ferite più o meno gravi, e i media si interrogano se non servano regole più restrittive per chi vuole adottare animali del genere. Ma se vi capita di parlare con i padroni dei pitbull, sentirete dire da tutti che il loro cane è “dolcissimo” e che non a caso è soprannominato nanny dog, cane tata, proprio per la sua affettuosità con i bambini.

E allora dove sta la verità? Il pitbull è davvero un cane per tutti? Elisabetta Grigorieff, istruttrice ed educatrice cinofila, per spiegare le caratteristiche della razza parte dall’analisi del loro nome, che nasce dall’unione di “pit”, in inglese “fossa/arena”, e bull che è la contrazione di bulldog, cani per tori. La fossa o arena era quella destinata ai sanguinosi spettacoli del bull-baiting e combattimenti di cani, passatempo popolarissimo nella Gran Bretagna del XVIII e XIX secolo e il pitbull ne diventò l’attore principe. I combattimenti dei cani oggi sono illegali, ma la storia non si può cancellare e resta scritta nel dna.

“I cani venivano selezionati incrociando il massiccio, pesante ed inespressivo bulldog con i terrier tenaci, veloci, scattanti – spiega Grigorieff – I pitbull sono animali in grado di sorprendere il toro o l’altro cane, con una presa tenace e ostinata per vincere le scommesse sui minuti di resistenza sul muso del toro o sulla pelle dell’avversario. Sono cani talmente determinati a colpire e uccidere da non sentire dolore; nella lotta tutti gli altri sensi vengono meno, nemmeno la voce del proprietario riesce a distoglierli”.

Secondo l’esperta educatrice, quindi, il pitbull è “un cane che ha ereditato dal bulldog: grande potenza, scarsa espressività, grande tolleranza al contatto fisico, la capacità di incassare, resistere pervicacemente, non mostrare le proprie intenzioni, persino bluffare. Mentre dal terrier ha preso: elevata reazione agli stimoli, fulminea capacità di azione, fortissima predisposizione alla competizione, alla predazione e alla lotta. Ma, come tutti i molossi, ha anche grande capacità di attaccamento e buona collaborazione che ne fanno dei buoni cani da compagnia e soprattutto da lavoro, là dove le loro caratteristiche più pericolose vengono gestite con una selezione impietosa”.

Grigorieff evidenzia come “la vita del pitbull è sempre all’eccesso in tutte le emozioni: gioia, tristezza, paura, disgusto, rabbia. Sono collaborativi ma sornioni, affettuosi fino all’inverosimile, giocherelloni allo stordimento, feroci e determinati fino alla morte (spesso dell’altro), poco espressivi e quindi imprevedibili. Di sicuro la grande fascinazione che fa propendere per l’acquisto di un esemplare di pitbull è esercitata dalla fama di cani combattenti”.

Va anche aggiunto che in Europa il pitbull non è una razza riconosciuta dalla FCI (Federazione Cinologica Internazionale) e attualmente molti paesi ne vietano l’allevamento e la detenzione (Francia, Germania, Spagna, Svezia sono alcuni). In Italia esistono allevamenti ovviamente non riconosciuti dall’ENCI (Ente Nazionale Cinofilia Italiana) e quindi non soggetti a nessun tipo di controllo morfologico, né tantomeno caratteriale. “Chiunque può acquistare un esemplare di pitbull, ma è innegabile che non sia un cane per tutti”, chiosa l’esperta cinofila.

Il fascino della loro fama pericolosa è quindi un fatto. Però poi i padroni insistono che sono dolcissimi e si arrabbiano se i pitbull vengono “criminalizzati” quando accade l’ennesimo attacco. Perché questa ambiguità tra gli umani estimatori della razza? Emanuela Mazzoni, psicologa e counselor relazionale, spiega che, per rispondere a tale domanda, dobbiamo tenere in considerazione la diffusione del significato dell’accompagnarsi a un pitbull: il baricentro su cui permangono i non detti è sempre l’aggressività. Che ci sia (i pitbull sono animali feroci), che sia negata (il mio pitbull non è aggressivo) o che sia stata rieducata (conosco un pitbull bravissimo con i bambini), resta un’ingombrante presenza e con essa, nella relazione, emerge il tema della consapevolezza.

Secondo Mazzoni, la scelta di adottare una razza potenzialmente aggressiva dovrebbe far riflettere sul perché farlo: ho necessità di difendermi? Desidero che chi mi incontra con il mio cane abbia paura di me? Voglio dimostrare che è una razza docile e buona? Ho sempre avuto a che fare con i pitbull e per me è un cane come un altro? E via elencando. Il motivo per cui un umano opera una scelta così complessa, come quella di accompagnarsi ad un animale temperamentalmente aggressivo (anche se educato alla docilità), dovrebbe essere stato portato alla coscienza da quella persona e quanto più dovrebbe essere socializzato, ovvero dichiarato in modo trasparente. Spiega la psicologa: “Solo questa, infatti, è la strada maestra per diminuire il pregiudizio verso questa razza, che comunque rimane di complessa gestione a prescindere dalla declinazione individuale delle caratteristiche filogenetiche. Tanto più vi è stata un’elevata consapevolezza della motivazione personale che ha determinato la scelta, tanto più sarà possibile equilibrare le relazioni fra cane, proprietario e società”.

La consapevolezza, la possibilità di dialogare, sia individualmente che in gruppo, su temi così complessi sono il modo migliore, secondo Mazzoni, per non lasciare che l’aggressività del cane rischi di esplodere in maniera incontrollata, ma abbia un canale educativo lungo cui dirigersi. Più aumenta la consapevolezza nel proprietario e più sarà facile che nella relazione con il proprio cane non si scarichino implicite proiezioni aggressive, sovraccaricando il pitbull di aspettative negate che potranno trasformarsi in azioni anche violente.

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