Salute mentale
“Nella stanza dei sogni” storie di pazienti
Pietro Roberto Goisis, medico, psichiatra e psicoanalista con “Nella stanza dei sogni. Un analista e i suoi pazienti” ha scritto un libro per se stesso e per i giovani terapeuti. È membro della Società Psicoanalitica Italiana e internazionale, docente presso l’Università Cattolica di Milano, Scuole di Psicoterapia e istituzioni pubbliche e private. Il suo libro – “Nella stanza dei sogni. Un analista e i suoi pazienti” (Enrico Damiani Editore, 2021) – rompe i canoni tradizionali della scrittura psicoanalitica, quasi sempre rivolta alla saggistica e crea un prodotto che definirei insolito. Il suo lavoro non si presenta come un saggio, ma potrebbe esserlo. Ricorda più da vicino un diario analitico. Di certo nella scrittura che propone non vi troviamo solo l’analista che parla ma anche i suoi pazienti. Una sorta di trasgressione della consueta lettura psicoanalitica. Intervista di Doriano Fasoli
Come le è venuto in mente di scrivere questo libro?
Arrivano momenti nella vita in cui si sente/desidera/pensa di avere qualcosa da dire.Quarant’anni di professione fanno anche di questi scherzi. In realtà tutto nasce e trae origine dal Congresso SPI di Trieste del 2002, sul tema dei fattori terapeutici. Quasi alla dead line dell’invio dei lavori un ragazzo, Annibale nel libro, tornò da me alla fine dell’adolescenza e volle ricostruire il nostro lungo e frammentato percorso. Da lì mi venne l’idea di scriverlo in prima persona, mandarlo come lavoro scientifico alla Commissione Scientifica. Venne accettato tra varie discussioni. In quell’occasione capii che volevo provare a raccontare le storie dei miei pazienti, in prima persona, come se fossero loro a parlare, io immedesimato in loro.
È la base teorica del mio modo di lavorare. Ho provato a incrociarla con la voglia e il piacere di scrivere. Ne è venuto un primo abbozzo di libro. Solo storie di pazienti. Poi ho capito che, per far capire davvero cosa succede nella stanza d’analisi, dovevo mettermi in gioco e entrare in scena anch’io. Qui si aprirebbe un lungo capitolo sulla neutralità, lo svelamento, la reciprocità, la co-costruzione. Eccoci al libro!
Dopo la scelta che ha fatto, raccontare le cose dal punto di vista dei pazienti, che cosa si prova in questo scambio di identità?
Un grande piacere in primo ruolo, forse addirittura un sollievo, perché in realtà è quello che provo ogni giorno, ad ogni seduta, con ogni paziente. Poterlo mettere in forma scritta, permettermelo pienamente all’interno della finzione letteraria, giocare fra le varie persone, è stato molto potente. Le ho sentite più vicine.
E parlo di gioco proprio nel senso winnicottiano di finzione, pretend come si dice in lingua inglese, fare finta, giochiamo a…, facciamo che…, come dicono i bambini. Perché pur essendo un gioco maledettamente serio, alla fine non avviene nessuna perdita o confusione identitaria. Mi sono messo e mi metto nei panni degli altri, ma senza diventare l’altro. Si attiva così un transitorio e consapevole scambio di identità. Il terapeuta si mette in contatto con i processi mentali del paziente, li sente letteralmente. A sua volta il paziente può comprendere come la mente del terapeuta funziona mentre “pensa come se fosse il paziente”. In questo scambio si attiva un processo di intensa esperienza emotiva, profondamente incarnata dentro la mia mente e nei miei neuroni specchio, come direbbe Gallese.
Quale può essere il suo riferimento clinico in questa circostanza?
In genere, quando mi viene richiesto di specificare il mio riferimento teorico clinico, la risposta immediata è di svelare per quale squadra calcistica faccio il tifo. Mi piace pensare ad una clinica trasversale e integrata, capace di attingere a diversi orientamenti non solo in ambito psicoanalitico. Una posizione che permetta ad un terapeuta di sapere consigliare al proprio interlocutore il trattamento più adatto a lui, anche se quel terapeuta non lo pratica. Che conosca le diverse forme di terapia disponibili, sappia come e per chi funzionano. Motivi l’indicazione che darà. Lo stesso vale per gli orientamenti psicoanalitici. Poi anch’io ho le mie simpatie e le mie preferenze. I modelli ai quali mi ispiro.
Sicuramente tutta la clinica del riconoscimento di Sander e Amadei, perché alla base del malessere sta la mancata comprensione dei nostri bisogni. Quindi credo che la relazione analitica sia curativa nella misura in cui permette di fare delle esperienze nuove, perfino riparative, sul piano dell’essere riconosciuti. Esperienze emotive correttive.
Poi è fonte di ispirazione lo scambio intersoggettivo tra bambino e caregiver, così come l’ha studiato Tronick con gli esprimenti sulle reazioni del bambino all’esposizione ad un viso inespressivo (still face). Perché dalla relazione e interazione nasce e si sviluppa il senso del sé unitario.
E nell’ambito della ricerca dove ha pescato?
Sono sempre stato affascinato dai filoni di ricerca clinici del Boston Change Process Study Group (BCPSG), formato da un gruppo formidabile di clinici e studiosi, che ha portato una rivoluzione nella comprensione e applicazione della psicoanalisi. Il cui motto centrale tra gli altri è il concetto di “qualcosa in più dell’interpretazione”.
Del Gruppo faceva parte Daniel Stern che ha teorizzato e studiato il “momento presente”, rappresentato da quegli scambi unici e quasi magici, seppur apparentemente insignificanti, che segnano i passaggi e i cambiamenti in una analisi. Infine mi piace citare il concetto del mio maestro, l’immedesimazione di Senise. Caratterizzato dalla nostra capacità di stare in contatto con ciò che sta provando e vivendo il nostro paziente e permettere a lui di sentire cosa stiamo provando noi in quel preciso momento. Uno scambio precursore e attivatore di esperienze di empatia.
Riassumendo, possiamo dire che lei pratica e crede in una psicoanalisi nelle quale la persona del terapeuta sia profondamente commisurata con la professione che svolge.
Esattamente. È difficile separare la persona dal professionista. Impossibile, forse.
Dopo che le abbiamo chiesto perché ha scritto il libro, ora vorremmo sapere: per chi lo ha scritto?
In primo luogo per me. Un bisogno di raccontare e condividere il mio percorso professionale dopo più di 40 anni. Poi per tutte le persone che hanno intrapreso un’analisi, soprattutto quelle che hanno fatto fatica e tratto pochi benefici. Forse potevano sperare in qualcosa di meglio. Poi per chi non ha mai o ancora trovato voglia e coraggio per iniziare un percorso di cura. Può aiutare a saperne qualcosa in più. Per i colleghi, per riflettere insieme sui nostri cambiamenti, quelli necessari, quelli possibili.
Ma soprattutto è un libro scritto per i giovani terapeuti, quelli che si affacciano alla professione o sono nei primi anni di pratica, affinché possano trarre spunti e riflessioni dall’esperienza di un analista ormai navigato. Mi auguro possano così respirare il piacere della trasmissione del sapere.
Lei ha già pubblicato alcuni anni fa, con un discreto successo, un libro sugli adolescenti: Costruire l’adolescenza. Tra immedesimazioni e bisogni. Sta già lavorando su qualcosa di nuovo?
In verità ho appena firmato un contratto con la Casa Editrice Routledge per un libro che pubblicherò in inglese. Diario di due psicoanalisti nella pandemia. C’è un virus tra noi. Si tratta del resoconto dentro il lockdown, in forma narrativa day by day, da parte di un collega/amico e del racconto, attraverso vari passaggi, della mia esperienza di malattia dentro il Covid-19 al quale fortunatamente sono sopravvissuto.
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