Salute mentale

Le “Menti sospettose” hanno una teoria del complotto per tutto

3 Maggio 2017

“Complotto!”. Che si parli di vaccini o di attentati, non c’è un solo argomento ormai che sia esente dall’ombra del complotto. Per questo è interessante un libro, uscito negli Stati Uniti lo scorso anno, pubblicato quest’anno in Italia da Bollati Boringhieri, scritto da Rob Brotherbon, docente di Psicologia presso il Barnard College di New York City e che insieme ad altri giovanissimi studiosi cura il sito www.conspiracypsychology.com.

Il libro nell’edizione originale

Menti sospettose – Perché crediamo alle teorie complottiste (disponibile anche in versione digitale), si apre con una panoramica su tutto quello che (per fortuna non la totalità del genere umano) si è finora “bevuto”, per poi spiegare i meccanismi psicologici che sono alla base della creduloneria che sempre più spesso alimenta e indirizza l’opinione pubblica.

“Esiste una teoria del complotto per tutto. A costruire le Piramidi furono gli antichi abitanti di Atlantide; Abraham Lincoln fu as-sassinato per ordine del suo vicepresidente, Andrew Johnson; l’al- lunaggio dell’Apollo 11 venne filmato in un set allestito nei minimi particolari da qualche parte in Arizona; nell’Area 51 si conserva tecnologia avanzata di origine aliena; Alex Jones, il conduttore radiofonico nonché teorico del complotto che trasmette da Austin, Texas, è in realtà l’alter ego del comico Bill Hicks (che avrebbe simulato la propria morte nei primi anni novanta per fare carriera nel complottismo). Poi c’è Big Pharma, gli elicotteri neri del Nuovo Ordine Mondiale, il Gruppo Bilderberg.)

Queste sono solo alcune delle teorie, ma chi sono i teorici? Scrive Briotrherbon:

Secondo un luogo comune, i teorici del complotto appartengono a una razza rara, a una frangia estremista, piccola ma motivata, di uomini di mezza età, depressi ed emarginati, degli outsider tutt’altro che stupidi con una stravagante mania per le ricerche (e, spesso, con una prepotente inclinazione alle masturbazioni mentali, e forse non solo mentali).

La maggior parte degli elementi di tale stereotipo, tuttavia, non regge alla prova dei fatti. Nel complesso, le donne risultano altret- tanto sensibili alle teorie del complotto quanto gli uomini. Neppure il livello di istruzione e reddito fa molta differenza. Nelle file dei teorici del complotto è leggermente maggiore la presenza dei diplomati rispetto ai laureati, ma anche professori, presidenti e premi Nobel possono soccombere al fascino del complottismo”.

Insomma, a sostenere con forza che Elvis Presley sia ancora vivo e se ne sta comodamente a bordo piscina in compagnia di Jim Morrison, Marilyn Monroe e della principessa Diana in qualche località segreta, esiste un numero incalcolabile di libri e di gente che ci crede.

«Menti sospettose», spiega il suo autore, «parla del pensiero del complotto, di ciò che la psicologia può svelare sul modo in cui decidiamo che cosa sia sensato e che cosa ridicolo, sul perché alcune persone credano a cose che ad altri sembrano del tutto incredibili»:

Naturalmente, se domandate a qualcuno perché crede – o non crede – a questa o a quella teoria, probabilmente vi dirà che è mol- to semplice: si è fatto la sua idea in base alle prove. La psicologia, invece, racconta una storia diversa. Esiste la necessità di dare un senso a ciò che accade, di ridurre la complessità del mondo. Per lo psicologo sociale Viren Swami, dell’Anglia University, è anche colpa dell’amigdala, la parte del cervello che ci fa reagire di fronte alle minacce: l’incertezza e l’ansia per il futuro la rendono iperattiva, e ciò spinge il cervello a un’incessante rianalisi delle informazioni a disposizione, nel tentativo di organizzarle in una narrazione coerente che ci faccia capire cosa sta succedendo, da chi siamo minacciati e come dovremmo reagire. E poi, certo, conta anche il desiderio di sentirsi più perspicaci del “gregge” che si accontenta delle spiegazioni ufficiali delle cose.

Chi sposa una teoria ha alte probabilità di credere anche alle altre, sottolinea Brotherton, che in una intervista rilasciata tempo fa al Venerdì di Repubblica, ha spiegato: «Si tratta di convinzioni granitiche. Le teorie del complotto non solo sono immuni alla confutazione, ma se ne alimentano: se una cosa sembra una cospirazione, lo è. Se invece non sembra una cospirazione, allora lo è ancora di più, perché fa pensare che chi voleva coprirla abbia fatto bene il suo lavoro. Le prove che contraddicono la teoria sono viste come atti di disinformazione dei cospiratori. Ossia, paradossalmente, prove del complotto stesso».

Il complottismo è cresciuto con internet? Così risponde lo psicologo americano: «In rete, dove è facile far girare fandonie ma anche essere sbugiardati, le teorie del complotto hanno subìto una mutazione genetica: oggi tendono ad essere più vaghe e meno circostanziate che in passato. Il complottista da web spesso si limita a evidenziare i punti critici delle versioni ufficiali di un evento e insinuare che qualcuno non stia dicendo la verità».

A dare forza al pensiero complottista è quello che in psicologia viene definito errore di attribuzione: «È la tendenza ad attribuire certi eventi alle caratteristiche personali degli altri e alla loro volontà piuttosto che al caso o a fattori esterni» spiega lo psicologo. «Si finisce così per pensare che esistano cure contro le malattie peggiori, ma che Big Pharma le tenga nascoste per continuare a lucrare sui farmaci. O che l’attuale crisi migratoria sia la conseguenza di un piano degli Usa per destabilizzare l’Europa».

O, viste le polemiche degli ultimi giorni, a credere alla favola delle onlus colluse con i trafficanti di esseri umani.

 

 

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