Famiglia
La strage di Latina e la sottovalutazione della violenza domestica
È successo di nuovo e nessuno ha fatto nulla per impedirlo. Un uomo, Luigi Capasso, ha sparato a sua moglie, Antonietta Gargiulo, e alle loro due figlie, la tredicenne Alessia e Martina, di soli sette anni, uccidendo le seconde e poi togliendosi la vita. La moglie è l’unica sopravvissuta, pur gravemente ferita, e sta lottando per non morire.
La vicenda, avvenuta a Cisterna di Latina, è resa ancora più grave da due elementi. In primis dal fatto che lui era un carabiniere, dunque un “uomo di legge”, che però da tempo picchiava e tradiva la moglie (e inoltre era stato coinvolto in passato in una vicenda di truffa a un’assicurazione). Punto secondo, non meno importante: secondo le prime ricostruzioni, Antonietta aveva chiesto aiuto sia ai colleghi di lui sia alla polizia. Non lo aveva denunciato, è vero, perché non voleva fargli perdere il lavoro, però aveva raccontato tutto, ma non era stata ascoltata dagli agenti, i quali, anzi, l’avevano interrogata perché lui l’aveva accusata di impedirgli di vedere le figlie.
Tutti conoscevano da tempo l’inferno della famiglia Capasso a Cisterna di Latina: non solo i colleghi di lui, ma anche gli amici, i vicini, il parroco. Tutti sapevano e ora Alessia e Martina sono morte e Antonietta forse vivrà, ma che vita avrà senza le amatissime figlie?
Abbiamo cercato di capire come è potuto succedere questo orrore assieme al dottor Giorgio Droetto, medico legale e criminologo.
Dottor Droetto, cominciamo dal principio: cosa è scattato nella mente di Capasso?
«È sempre difficile rispondere a una domanda sui processi mentali di un essere umano autore di un crimine efferato. In casi simili, l’omicidio nasce dall’insopportabile ferita narcisistica, inferta alla personalità del maschio.
Probabilmente Capasso ha visto vacillare il suo delirante credo di onnipotenza e ha sentito di perdere il controllo degli eventi e delle persone della sua famiglia, controllo che credeva di aver sempre avuto. Nella sua distorta e perversa logica, l’unica soluzione che riusciva ad elaborare era la distruzione di quanto non poteva più controllare».
L’omicidio della moglie/compagna/fidanzata/ ragazza è un fenomeno molto diffuso.
«Sì, nasce da una forma di violenza spesso larvata e silenziosa, coperta dalle stesse vittime che per anni non solo subiscono in silenzio ma cercano di trovare giustificazioni quando non addirittura sviluppano masochistici sensi di colpa nei confronti dei loro persecutori.
Gli omicidi che avvengono all’interno delle famiglie sono annualmente superiori di numero agli omicidi perpetrati dalla mafia».
Con che coraggio Capasso ha ucciso le sue stesse figlie?
«Questa è la domanda più angosciante e terribile.
Sappiamo di genitori che sopprimono i figli per infliggere un dolore atroce all’altro genitore che vivrà nell’“ergastolo” perenne della morte dei figli, come descrive Euripide nella Medea (oggi in criminologia tale comportamento viene definito come sindrome di Medea) ma non è il caso di Capasso, che ha cercato di uccidere anche la moglie – e pertanto non poteva più essere colpita negli affetti.
Si potrebbe pensare quindi che lui abbia sparato ad Alessia e Martina per non lasciarle sole in un dolore infinito, senza più madre e padre (omicidio per troppo amore), ma non credo sia il nostro caso.
L’ipotesi più verosimile è che Capasso, nella sua visione perversa, abbia visto le figlie come “appendici” della madre e pertanto “meritevoli” di morte come lei».
Capasso poi si è ucciso: perché?
«Il suicidio rappresenta forse l’unico momento di lucidità e di vera disperazione: Capasso, prendendo contatto anche solo per un attimo con la realtà, si deve essere reso conto della irreversibilità e della atrocità del suo gesto e ha deciso di sfuggire all’orrore uccidendosi».
In tanti sapevano della violenza quotidiana a cui erano sottoposte Antonietta e le sue bambine. Parenti, amici, vicini di casa e colleghi potevano fare di più per salvarle?
«Non è facile nemmeno per gli addetti ai lavori capire se un soggetto a rischio commetterà un crimine e prevenirlo. Inoltre non sappiamo nemmeno ragionevolmente se i tentativi di fermare Capasso avrebbero funzionato. Ad esempio, probabilmente, non si sarebbe risolto il problema togliendo a Capasso l’arma di servizio: se lo avessero fatto, forse si sarebbe accresciuta addirittura la sua rabbia, l’umiliazione e la frustrazione e lui avrebbe potuto uccidere usando un’arma illegale, un’arma bianca o addirittura semplicemente le mani.
La letteratura criminologica ci insegna che un crimine per omicidio trova le più varie e fantasiose modalità di esecuzione».
Che consigli darebbe a chi ha un’amica o parente o collega che vive in un clima di terrore in famiglia? Come la si può aiutare?
«Ritengo che in primo luogo si debba fare una azione di convincimento sulla vittima affinché interrompa ogni rapporto con il suo persecutore.
Spesso ci troviamo di fronte a donne “succubi” che tendono a minimizzare, giustificare, quando addirittura non si creano loro stesse dei sensi di colpa, oppure che, per paura di traumatizzare ulteriormente i figli, sperano di ricomporre una situazione impossibile».
In altre parole molte donne finiscono in una sorta di trappola mentale?
«L’errore in questi casi sta nel pensare che le situazioni si possano cambiare, che un coniuge con grave disturbo di personalità e con tendenza ad assumere atteggiamenti aggressivi possa migliorare.
A fronte della rimozione della gravità del problema da parte della vittima, in particolare se sono anche coinvolti minori, chi è a lei vicino deve segnalare alle autorità competenti gli accadimenti.
Le segnalazioni vanno fatte in modo dettagliato, circostanziato, evitando giudizi, valutazioni ed opinioni personali. In altre parole chi segnala deve comportarsi come una macchina fotografica, che ritrae in modo asettico ma preciso la realtà che si presenta davanti, e non deve fare come il pittore che invece la interpreta secondo i propri sentimenti».
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