Costume

La comunicazione che uccide: il fenomeno-stigma

8 Ottobre 2016

La diffusione dei termini tecnici nel lessico quotidiano solitamente segue un percorso standardizzato. Da un uso settoriale, legato ad esempio alle scienze sociali, si passa gradualmente alla vita di tutti i giorni, man mano che se ne prende confidenza col significato. E’ il caso, ad esempio, di parole come “feedback” e “briefing”, che ormai infestano qualsiasi conversazione in ambito lavorativo.

Anche l’italianissimo “resilienza” è di gran moda, essendo stato esportato dalla fisica (dove indica la capacità di un materiale di assorbire un urto) alla psicologia e quindi anche alla quotidianità, dove qualunque piccolo stress contribuisce a farci sentire eroicamente resilienti.

La parola “stigma” ha invece seguito una strada opposta, assumendo una declinazione tecnica solo di recente. Siamo ormai da tempo abituati ad utilizzarla per indicare situazioni nelle quali un comportamento o una tendenza segnano la distanza di chi la attua dal resto del corpo sociale. Così sentiamo frequentemente che bisogna “stigmatizzare” la violenza di alcuni frequentatori degli stadi di calcio oppure che la pressione dei fenomeni migratori può provocare uno stigma nei confronti degli stranieri.

In sociologia, il canadese Erving Goffman (1922/1982) ha elaborato la “teoria dello stigma” per descrivere le situazioni nelle quali distinguiamo tra “noi” e “loro”, ovvero tra i “normali” e coloro che invece “si discostano per qualche caratteristica negativa dai comportamenti che ci si aspettiamo”. Goffman spiega come lo stigma derivi da “fattori fondamentali della società, stereotipi o attese normative” e ci porti a creare un muro tra il gruppo al quale sentiamo di appartenere e un generico “altro”, che viene svilito fino ad essere considerato “inferiore o persino non umano”.

Evidentemente, in un periodo storico di forti tensioni come quello che stiamo vivendo, il fenomeno della stigmatizzazione può facilmente riguardare le differenze sociali, etniche, religiose ed economiche, contribuendo ad aumentare in maniera preoccupante le fratture esistenti.

Tra le sue varie applicazioni, negli ultimi anni è sempre più spesso oggetto di studio il ruolo dello stigma nella malattia mentale. Questo sviluppo è dovuto ad entità come ASILS (Alta Scuola Italiana per la Lotta allo Stigma), che fa parte di SIMP (Società italiana di Medicina Psicosomatica), ed organizza un’iniziativa speciale per la giornata nazionale per la Lotta allo Stigma.

Venerdì 14 e sabato 15 ottobre, all’Università di Ferrara, si svolge un convegno con diversi interventi di specialisti del settore, impegnati a delineare l’influenza dello stigma in vari ambiti della vita: dalla depressione postparto al disturbo post-traumatico, dalle questioni di genere al ruolo delle istituzioni di cura della malattia mentale.

In quest’ultimo ambito, davvero delicatissimo, subire lo stigma significa vivere ogni giorno nell’esclusione, nel rifiuto, nella vergogna e nella solitudine, con danni che talvolta possono precludere il felice esito di un percorso di cura. E’ sorprendente constatare come, ancora oggi, persino in istituzioni cliniche che si presumono altamente preparate si possa agire sulla base di pregiudizi che provocano emarginazione e cronicità: se un malato non viene considerato una persona che vive un transitorio momento di sofferenza, ma un soggetto incurabile, si dà il via ad un processo che porterà il soggetto ad identificarsi con tale immagine, per quanto fasulla.

Il pregiudizio si fonda sugli stereotipi di pericolosità, inaffidabilità e incapacità di conformarsi alle regole, di cui, almeno in parte, si attribuisce una “colpa” al malato. In altri casi, il danno causato dallo stigma è più subdolo, perché non agisce in modo diretto, ma suggerisce silenziosamente al soggetto di autoescludersi dal corpo sociale, in una sorta di auto-discriminazione anticipatoria.

Utilizziamo alcuni esempi per capire meglio come può funzionare questo meccanismo perverso. Il primo caso riguarda una bambina che veniva frequentemente picchiata dalla nonna, fino a quando non le è venuto in mente di imitare i comportamenti visti in un film sulla possessione da parte del demonio. Credendola indemoniata, la nonna si è spaventata ed ha smesso di usarle violenza, ma lo stigma le è rimasto appiccicato addosso, esponendola prima alla discriminazione e poi all’emergere di disturbi psichiatrici.

Un altro caso riguarda la schizofrenia, perché alla diagnosi che riguarda il paziente si abbinano spesso pregiudizi riguardanti il suo gruppo familiare, che siamo portati a coinvolgere sia per una presunta ereditarietà della malattia, sia per il fatto che essa può originare da condizioni ambientali sfavorevoli.

Nei frequenti casi in cui una malattia organica (ad esempio il tumore) si abbina ad un disturbo psichiatrico (come la depressione), quest’ultimo può influenzare negativamente la relazione tra paziente e medico, impedendo a quest’ultimo di essere sufficientemente sollecito nell’esortare il malato a fare gli accertamenti e seguire le terapie del caso.

In ogni caso, lo stigma si può applicare a qualunque ambito della vita sociale, anche al disagio di un bambino che si rende conto di essere l’unico della propria classe a non possedere un giocattolo o un abito firmato molto di moda. Ci sono poi situazioni ben più gravi, come quella raccontato da Giorgio Visentin, presidente di Wonca Italia*, in un’intervista a “Il Tempo”:La comunicazione è importante. Ricordate gli spot all’inizio delle infezioni di Aids, il malato circondato da un’aura violacea? Psicologicamente creò stigma e disastri. Fra gli scopertisi contagiati, ne sono morti più di suicidio che di malattia”.

Per maggiori informazioni sul Seminario per la lotta allo stigma, Ferrara, 14/15 ottobre 2016:

Per il programma, clicca QUI
Per iscriverti, clicca QUI

*Wonca sta per “World Organization of National Colleges and Academies of Family Medicine/General Practice”

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Foto: YouTube, Morguefile

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