Salute mentale

In tempi di pandemia, la salute mentale non è roba da ricchi

20 Febbraio 2022

La didattica a distanza ha aiutato la scuola a non fermarsi, a proseguire non solo programmi scolastici ma a mantenere un contatto con gli alunni. Se non fosse stata attivata questa modalità di fare lezione la scuola avrebbe chiuso battenti, avremmo rivisto i nostri alunni dopo due anni ignorando completamente quanto nel frattempo si è verificato nelle loro vite.

La distanza ha tuttavia lasciato segni sulle anime più che sui corpi perché le ha costrette a diffidare dell’altro, a tenerle lontane dalla prossimità, a non dare ossigeno alla voglia di contatto. Il virus ci ha insegnato che l’altro è un potenziale nemico, che le braccia non sono un luogo in cui trovare ristoro, che la vicinanza necessita la successiva detersione. L’altro non può pìù permearci, bisogna creare una pellicola che ci protegge dalla minaccia che incombe e che ha assunto le sembianze del nostro amico.

La paura della morte ha divorato la nostra gioia di vivere. La vita ha funzionato per contrazione, la misura è diventato il pilastro delle nostre vite, il metro di distanza tra i banchi, il conteggiare il tempo previsto per l’areazione di una stanza, il pexiglas che ha funto da divisorio. Ogni gesto, movimento, ha dovuto essere presieduto dalla ragione che come un controllore ha fatto attenzione che si svolgesse secondo le linee di condotta predisposte da misure di prevenzione. Misure coercitive e necessarie che ci hanno sottratto alla vita. Tutto ciò ha avuto ripercussioni sull’umore, sullo stato d’animo, sulla possibilità di esprimere se stessi completamente, rendendoci più cupi, soli, depressi.

Le depressioni le vedi ad occhio nudo, negli improvvisi dimagrimenti, o l’irrefrenabile voglia di attaccarti al cibo come ancora di salvezza. Il vuoto che abbiamo dentro raggiunge il nostro stomaco, ci attanaglia come una morsa e qualsiasi boccone è veleno perché cerca di farsi strada in quel buio mortifero come un lumino di speranza. O al contrario ingeriamo cibo spropositatamente perché aumenta il livello di serotonina, incrementando il benessere mentale. Il volto è spento, lo sguardo è altrove, immerso in mondi in cui l’accesso è impedito. I dolori psicosomatici sono l’esternazione di un malessere interiore che grida aiuto.

Eppure spesso sono sintomi che non vediamo, trascuriamo, sottovalutiamo perché le depressioni non sono certificate come malattie. Se riguarda un giovane, poi, tendiamo ad attribuire il malessere tipico dell’età giovanile. Un contrasto con i genitori, un amore non corrisposto, a noi non sembrano motivi sufficienti a giustificare una depressione, lo cataloghiamo come fosse un capriccio, lo archiviamo come un’influenza, un momento passeggero. La sofferenza ci sfugge, le diamo poco peso, dimenticando che il dolore scava solchi, cambia il volto, la percezione della realtà. Il dolore ci fa ammalare. Ci rende incapaci di scorgere il fluire della vita, incapaci di vivere.

Dopo il “no” nella Legge di Bilancio arriva un emendamento al Decreto Milleproroghe che prevede un contributo di massimo 600 euro per assistenza psicologica, riconosciuto in base a una serie requisiti, a partire dall’ ISEE.

Permettersi uno psicologo è roba da ricchi. Seicento euro sono scarsi due mesi di terapia. Lo psicologo è un vezzo per pochi? Le scuole dovrebbero prevedere uno sportello d’ascolto, altrettanto importante quanto il sostegno. Supportare una persona significa curare la sua anima, renderla capace di affrontare disagi e conflitti che si presentano nel percorso di vita.

Chiusi i manicomi, con la legge Basaglia, la società ha dimenticato il supporto psicologico verso chi si trova in difficoltà. L’essere umano non è un pazzo da reclusione o una persona che funziona sempre alla perfezione, è una persona che a volte smarrisce la strada, non si riconosce più in un mondo che è vertiginosamente cambiato e di cui non trova più le coordinate. Adattarsi attraverso percorsi terapeutici di cura e assistenza sarebbe un obbligo di cui lo Stato dovrebbe interamente farsi carico.

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