Famiglia
Il suicidio di Giada nasce dalla non accettazione dei propri limiti
Il suicidio di Giada De Filippo? Un evento portatore di «dolore spirituale e psichico». Emanuela Mazzoni, psicologa specializzata in counseling relazionale e coautrice del libro “La Scienza Relazionale e le malattie mentali”, parla della studentessa molisana che si è tolta la vita l’11 aprile lanciandosi dal terrazzo di un edificio dell’Università di Napoli dopo aver mentito per anni sui propri studi universitari. Quel giorno aveva riunito famiglia, fidanzato e amici, preparato le bomboniere, prenotato la pizzeria e si era vestita e pettinata con cura in vista di una cerimonia di laurea a cui lei in realtà non poteva partecipare, poiché aveva dato solo pochi esami. Da quanto si evince, dunque, Giada aveva premeditato tutto fino alla sua tragica fine, avvenuta davanti agli occhi del suo ragazzo.
Dottoressa, partiamo dalla vicenda, che ha colpito molto gli Italiani.
«Ci sono numerosi fattori in questa storia che rendono la sofferenza di cui essa è portatrice estremamente difficile da elaborare. Il primo di tutti è la normalità: una giovane che fa l’università, ha degli amici, un fidanzato, una famiglia, ovvero tutto quello che una giovane della sua età sembrerebbe poter desiderare, eppure si toglie la vita».
E poi?
«Poi c’è il fattore della colpa. Ogni volta che avviene un suicidio si cerca di stabilire su chi ricadrà la responsabilità. Io parlo di una colpa archetipica, non di quella giuridica ovviamente, ovvero quella che nasce dal bisogno degli esseri umani di scaricare su qualcuno le energie negative contenute nel gesto estremo del suicidio. Purtroppo, solitamente gran parte di questa responsabilità ricade proprio su coloro che soffrono di più per la perdita: amici, familiari, fidanzato».
Viene spontanea la domanda, infatti, come mai non si siano accorti di nulla per anni.
«La spiegazione in questo caso potrebbe essere che, essendo proprio loro le persone che potevano distoglierla dal gesto, ella si sia guardata bene dal lasciar trasparire il pur minimo indizio e non far trapelare niente delle sue intenzioni alle persone a lei vicine. Deve aver sofferto molto a tenere distanti i sentimenti che provava per loro mentre dall’altro lato ideava con lucidità il suo piano di autoeliminazione. Questa distanza interiore e celata avrà prodotto dentro di lei una scissione sempre più profonda, fino a uno squarcio nella personalità».
Cioè?
«La sua personalità si è divisa a metà tra i sentimenti di amore che provava per i suoi cari e la probabile convinzione che la sua vita non avrebbe avuto dignità senza il raggiungimento dell’obiettivo della laurea in quel momento. Questa seconda parte ha probabilmente preso progressivamente molto spazio dentro di lei, fino a diventare preponderante, poi assolutamente refrattaria e impermeabile ad ogni elemento di speranza o di cambiamento che potesse arrivare dall’esterno, fino alla fase finale della preparazione della festa-funerale dalla quale non avrebbe potuto tornare indietro».
Colpisce la meticolosità con cui ha preparato tutto.
«Sì, essa indica da un lato la cura che ha avuto per sé e per la preparazione del suo commiato dalla vita e dall’altro quella che può essere stata la forte carica simbolica in ogni passaggio (il vestito a festa, al posto del sudario, le bomboniere al posto del cartoncino con la foto, l’annuncio della laurea al posto di quello funerario e via elencando).
Il caso di Giada non è l’unico in cui uno studente assicura ai propri cari di essere a un passo dalla laurea quando non è così. Come si spiega questo fenomeno?
«La storia di Giada ha un’origine comune a molti giovani, quella delle difficoltà universitarie, dell’ingigantimento delle aspettative, della non-accettazione di sé e dei propri limiti, dell’incapacità di chiedere aiuto.
Il finale di storie come questo può non essere tragico solo quando la parte di sé disperata (ovvero che ha perso la speranza) incontra qualcuno che è capace di entrare in risonanza empatica con questo dolore e infondere speranza».
Come può avvenire un tale incontro positivo?
«Ciò avviene, senza che lo si possa sapere, milioni, forse miliardi di volte al giorno: tantissime persone nel mondo sono portatrici, a ragione, di visioni ottimiste e positive della vita che trasmettono agli altri.
Lo sviluppo di relazioni autentiche è l’unica vera forma di prevenzione per la perdita di speranza, poiché esse sono il luogo in cui è possibile aprirsi, raccontarsi per ciò che si è, accettando i propri limiti e i limiti dell’altro, ma anche ritrovando coraggio, supporto, ascolto e speranza.
Se invece si sente di aver bisogno di uno spazio di libertà dove essere ascoltati, ci sono quelli che negli anni ’90 si chiamavano gruppi di incontro».
Cosa sono?
«Luoghi della prevenzione non solo di stati depressivi, di scissioni che frammentano la personalità, di rischi di suicidio, di perdita di speranza ma anche di abuso di sostanze, in cui era possibile far nascere amicizie autentiche profonde e in certi casi anche durature. Oggi i gruppi di incontro si sono evoluti e sono strumenti ancora più efficaci: chi volesse fare l’esperienza può trovare maggiori informazioni sul nostro sito Prepos.com».
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