Medicina
Silvestri: “Trattiamo i cittadini da adulti e ricordiamoci degli altri malati”
La conversazione con Guido Silvestri inizia da una lettera. “Queste sono le lettere che ricevo, le lettere che mi spingono a continuare a fare quel che faccio”. E mi legge le parole di un uomo, un musicista, un padre, che ha perduto per un neuroblastoma il suo secondogenito, di appena 5 mesi, subito prima che il Covid cancellasse anche il diritto al lutto e al pianto con gli amici. Quest’uomo ringrazia il professor Silvestri, virologo e patologo, professore alla Emory University di Atlanta, medico e direttore di un dipartimento dove lavorano più di 500 persone, editor del Journal of Virology, la rivista scientifica di virologia più importante del mondo, per il lavoro di divulgazione della conoscenza e della speranza che ha fatto in questi mesi. Perché ha aiutato lui e la sua famiglia a guardare verso la fine del tunnel, ad accettare l’inconcepibile per guardare a un dopo più sereno: chiudersi tra quattro mura subito dopo aver perso un figlio.
Parte da una disperazione che ha trovato accudimento nella conoscenza, Guido Silvestri, per raccontare il suo “ottimismo che viene dalla conoscenza”, uno dei mantra che sostiene il suo lavoro di divulgatore scientifico che in pochi mesi ha raggiunto centinaia di migliaia di affezionati su Facebook ed è diventato un libro pubblicato da Rizzoli, dal titolo “Ricominciare dalla scienza”, che raccoglie proprio le “pillole di ottimismo” che lungo le settimane, anche quando sembrava difficile essere ottimisti, il professore ha sempre seminato in rete. La semina è andata così bene che “le pillole” sono diventate un appuntamento quotidiano, diffuse da una pagina ad hoc, e prodotte da un gruppo composto soprattutto di medici, ma non solo. Ci sono giuristi, economisti, psicologi, tutti raccolti attorno a un obiettivo: combattere il virus e le sue conseguenze con la conoscenza medica e non, tenendo a mente una cosa: “Esiste il covid, ed è un nemico che dobbiamo combattere duramente. Ma esiste anche tutto il resto, e non possiamo non preoccuparcene”.
Il mio cognome, che coincide senza parentele con quello di Pier Vittorio Tondelli, ci porta a iniziare direttamente da una digressione. “Lo incontrai poco prima che morisse, e poco prima di trasferirmi negli Usa, a un evento di beneficienza” mi dice. “Lo ricordo come una figura fondamentale perchè fu tra i primi a subire lo stigma dello Hiv (che Silvestri studia e combatte da decenni, ndr) e quello dell’omossessualità, e quindi divenne un simbolo della lotta a questo stigma”.
Torniamo al virus di oggi, il Covid-19. Silvestri ha fatto e fa ogni giorno informazione. Gli racconto la mia sensazione di iper informazione, in pieno lockdown, eppure contemporanemante di afasia. Leggevo tutto il leggibile in tutte le lingue che so, ma non trovavo le parole, che in teoria sarebbero il mio, il nostro mestiere.
“Io faccio tutto questo probono e per cercare di aiutare delle persone. Le persone come quelle che mi scrivono la lettera di prima. Si è fatta una narrativa sul virus, una narrativa terribile che ha costruito un’alleanza tra i politici che prima minimizzavano e poi hanno dovuto urlare al contrario, i media scandalistici, e gli esperti: o meglio, un certo modo di fare l’esperto, in particolare l’epidemiologo. Una modalità di azione e comunicazione tutta concentrata sul virus, in maniera difensiva, che ha dimenticato tutto il resto. Per averlo sottolineato, e in qualche modo combattuto, ricevo a volte gli attacchi di alcune nullità scientifiche da social, ma me ne frego e continuo a farlo perchè è giusto”.
Settimane fa mi ha detto che sentiva il bisogno di fare divulgazione in italiano e per l’italia. Cosa intendeva, perché sentiva questa esigenza?
“Anche negli Usa la discussione sul Covid è politicizzata. Però, forse per un insieme di motivi complessi da spiegare, è una politicizzazione meno drammatica e meno dannosa, almeno per quel che riguarda questa vicenda. Abbiamo un presidente che non ha una visione strategica per nessun problema. Uno dei presidente più mediocri di sempre. Però abbiamo una comunità scientifica forte e autorevole, gli stati sono autonomi, e anche noi come medical center abbiamo sempre agito in autonomia. Fin dall’inizio c’erano divulgatori affidabili, anche provenienti dal nostro istituto. In Italia ho sentito invece una situazione diversa, soprattutto mi ha colpito vedere una sconnessione tra ciò che le persone mi dicevano in privato e ciò che dicevano in pubblico. Per questo ho deciso di prendere parola”.
Come si spiega la differenza tra versione pubblica e versione privata?
La versione ufficiale è sempre improntata alla preoccupazione per l’irresponsabilità degli italiani. Esperti e politici, in Italia, sembrano pensare che, se si dice la verità, gli italiani imbecilli si comportano male, vanno via di testa. I negazionisti sono ovviamente dei cretini, ma sono piccoli gruppi, marginali, come è giusto che sia. Invece nella comunità scientifica mi è sembrata prevalere la preoccupazione di non essere strumentalizzati o strumentalizzabili da parte di questi. Mentre io credo che sia sempre giusto dire la verità ai cittadini, perché solo prendendosi questa responsabilità la scienza e la politica aiuteranno la responsabilizzazione dei cittadini. I cittadini vanno trattati da adulti, e quindi dire che non c’è evidenza scientifica che l’uso universale delle mascherine – cioè: esco di casa alle 8 del mattino, e mi metto la mascherina per guidare da solo, fare una passeggiata al parco da solo: insomma per fare qualunque cosa… – riduce i contagi significa semplicemente dire la verità. Perchè questa evidenza scientifica non c’è. Allo stesso modo, dire, invece, che c’è chiarissima evidenza che in certi ambienti – ospedali, rsa, ecc – l’uso delle mascherine riduce i contagi, significa sempre dire la verità. E ancora, ci sono molte probabilità che in tutti gli ambienti chiusi usarle possa ridurre i contagi. L’obiezione che arriva è sempre questa: ma se dici così poi la gente pensa di non usarle mai. Se entriamo in questa logica, allora finiamo col proibire tutto, in ogni campo. Del resto, si muore di incidente stradale con sempre troppa frequenza, ma a nessuno viene in mente di proibire il traffico automobilistico.
Lei viene da uno studio di lunga data di una malattia simbolica come lo HIV. Continuando ad arretrare la linea della prudenza, o del panico, non avremmo mai più dovuto neppure baciarci.
Esatto. Peraltro, la dinamica delle due distorsioni opposte – negazionismo e catastrofismo – aveva già operato nel discorso pubblico sull’AIDS. In quel caso poi c’erano elementi come l’omofobia, la stigmatizzazione morale dell’uso di qualunque droga, e poi c’è stato il negazionismo. Sicuramente è un po’ scoraggiante vedere come sia difficile costruire un discorso pubblico in modo positivo, anche adesso che abbiamo un precedente importante, come quello dell’Hiv, e iniziamo a conoscere molto meglio il COVID. Per questo io insisto molto sul concetto di “ottimismo che viene dalla conoscenza”. C’è stato e c’è un grande sforzo della scienza; abbiamo 5 vaccini in fase 3; probabilmente mai prima d’ora l’umanità tutta insieme aveva sostenuto la scienza in una battaglia. Mi sembra ci siano buone ragioni per guardare al prossimo futuro con speranza.
Ad esempio, si parla molto, un po’ all’improvviso, degli anticorpi monoclonali, che parrebbero essere il game changer più vicino. Lei ne parla da un po’.
Rino Rappuoli è uscito qualche giorno fa con la sua ricerca, probabilmente perché ha ritenuto che fosse il momento giusto comunicare. Ripeto: la scienza è in cammino, e negli USA questo è davvero l’argomento principale del discorso pubblico. Anche da noi ci sono i chiusuristi catastrofisti, ma la scienza è la vera protagonista del dibattito, ovviamente non scevro di strumentalizzazioni opposte. In Italia invece questo discorso che a me pare banale continua a dare fastidio, ad essere considerato come rischioso, perché l’ottimismo sarebbe l’anticamera dell’irresponsabilità. E quindi se non mettiamo paura poi succede un disastro. Io non credo sia la cosa giusta. Come non può essere la cosa giusta pensare di tenere segreti gli atti ufficiali del dibattito politico tra Comitato Tecnico Scientifico e Governo. Noi, come team di Pillole di Ottimismo, abbiamo preso posizione a favore della desecretazione con la giurista Silvia Brizzi.
Era stata annunciata una sua parteciopazione al famoso convegno del Senato definito dei “negazionisti”. In verità, c’erano negazionisti e insigni editorialisti, pseudoscienziati e scienziati serissimi.
Diciamo che si fa il linciaggio aggiustato a seconda della vittima. Sabino Cassese, insigne giurista con cui si confronta regolarmente il presidente Mattarella, non si azzardano a chiamarlo “negazionista”. Lo stesso vale per Michele Ainis, o Henry Levi, che peraltro ha scritto un libro magnifico sul Covid. Lo stesso allora valga per seri colleghi come Clementi o Bassetti. Peraltro, già l’uso del termine a me sembra assurdo anche a proposito dell’Aids, ma lì davvero parliamo di centinaia di migliaia di morti. Ma è comunque un termine da usare con prudenza, visto che ci riporta alla negazione della Shoa che in diversi paesi è punita con il diritto penale. Al negazionista si nega in casi eccezionali il diritto di parola, ma questo deve restare un’eccezione. Io al convegno non sono andato – scusandomi, perché avrei dovuto informarmi prima – perché c’era gente che ha propagandato pseudoscienza, ma la mia resta una scelta personale. Non condanno chi l’ha fatto. Sgarbi mi ha insultato per la defezione, mi sistemerò con il mio psicanalista. (E sorride) A parte tutto, io credo che sul covid la conversazione sia stata amputata. Dopo tante minimizzazioni iniziali – abbraccia il cinese, Milano non si ferma… -, ci si è preoccupati di colpo, temendo che il disastro potesse travolgere politici e tecnici, e quindi tutto si è saldato con certe culture paternalistiche che ci dominano. Così però si è perduto l’orizzonte complessivo: i danni psicologici delle chiusure, una recessione che rischia di diventare davvero devastante. Per questo ho sempre usato la metafora dei due scogli, da un lato l’epidemia, dall’altro il disastro socio-economico.
Nei mesi scorsi mi sono confrontato con persone che erano già coscienti a fine anni 60, quando l’infuenza asiatica fece oltre 20 mila morti in Italia. Nessuno se ne ricordava, eppure le proporzioni delle vittime sono le stesse di oggi. Come si spiega questo cambiamento di coscienza collettiva?
I chiusuristi estremi ti diranno sempre che se non si fosse fatto lockdown i morti sarebbero stati molti di più. È l’antica teoria e pratica del salasso che ha dominato per secoli la medicina mondiale: era la cura universale, e a suo modo funzionava sempre. Se guarivi, il merito era sempre del salasso. Se morivi, era perché non te ne aveva fatto abbastanza, o erano intervenuti troppo tardi. Peraltro, a proposito di salasso, le stime sul pil dicono che la Svezia fa -8,7%, la Spagna -%18, l’Italia -12% e la Francia -14%. Non difendo di per sè un modello o l’altro, ma direi che anche questi dati andrebbero tenuti presente, perché riguarda la vita e la salute dei cittadini quanto quelli epidemiologici.
A proposito di dibattito epidemiologico, mi ha colpito che spesso è stato guidato da non medici, ma da fisici, informatici, matematici. Forse, tra voi e loro, avreste dovuto parlarvi di più?
Gli epidemiologi dovrebbero farsi un po’ di esame di coscienza, quando tutto sarà tornato nella normalità. Hanno sposato tutti, o quasi, un atteggiamento fortemente difensivo. Come se venisse loro chiesto di prevenire del tutto le conseguenze negative della pandemia, cosa che non è fattibile per definizione. Perchè se noi avessimo messo 60 milioni di italiani in una bolla per tre mesi avremmo risolto il problema, non serve il phd in epidemiologia per proporre ricette del genere. Ovviamente non è possibile risolvere così la questione, perché effettivamente il mondo non può fermarsi. La discussione non è se la chiusura funziona o no, perché sarebbe una discussione idiota, ed è ovvio che le chiusure funzionano. È come dire che io per eliminare in un paziente il carcinoma del pancreas, brucio il paziente, includendo il suo pancreas. È una soluzione? Direi di no. Mettere la mascherina non è una tragedia, mentre creare milioni di disoccupati è una tragedia. Su questo ho discusso con un mio carissimo amico come Roberto Burioni, che mi diceva: “dobbiamo occuparci del virus”. Io dicevo e dico: “dobbiamo occuparci di tutto” perchè poi le psicosi, le depressioni, le malattie non diagnosticate e non curate creano enormi problemi medici. Non meno gravi, nè meno meritevoli di rispetto e cura, rispetto al virus.
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