Medicina

Non so voi ma io del cancro mi sono rotto i coglioni

16 Ottobre 2017

Una mattina di inizio autunno a Dublino ci sono nove gradi.

Mio zio Luca, 54 anni, si sveglia e ha male alla schiena. Forse impreca contro il lunedì, sperando che il sabato arrivi in fretta. Forse pensa che la causa del dolore sia il tasso di umidità, insolitamente superiore all’85%.

Chissà se ha scherzato con la fidanzata – “ormai sto diventando vecchio” – oppure se in qualche antro di se stesso aveva già intuito.

Se ha scherzato, tuttavia, la situazione deve aver cambiato drammaticamente di segno quando, provando ad alzarsi dal letto, non è riuscito a raggiungere la posizione eretta. Il dolore alla schiena, fino alla sera prima relegato alla categoria del fastidio, si era fatto insopportabile, un disco d’acciaio piantato nella schiena, tra le vertebre, sotto la carne.

Si è sdraiato, ha chiamato l’ambulanza, è stato trasportato in ospedale. Gli esami hanno rilevato la presenza di metastasi talmente estese che i medici non sono stati nemmeno in grado di capirne la causa. Di solito la sentenza di morte è almeno circoscritta geograficamente: tumore al cervello, ai polmoni, al pancreas. Con mio zio no: tumore dappertutto, così esteso che mentre i dottori guardavano le lastre allibiti, nella schiena di mio zio un’intera vertebra cedeva sotto il peso di una massa tumorale grossa quanto un pompelmo. Il cancro non ha avuto neppure la pazienza di aspettare il week-end: se l’è portato via poche ore dopo, senza concederci neppure il tempo di salutarci. Una fine fulminea per un uomo che aveva sempre vissuto veloce.

Pensare che un qualunque abitante del Pianeta Terra possa svegliarsi un lunedì mattina e scoprire che non potrà arrivare al fine settimana, dovrebbe costringere i leader del Mondo ad un annuncio: da oggi ci chiudiamo in una stanza e non se ne esce fino a che non abbiamo speso abbastanza soldi per trovare una cura per il cancro. Perché d’accordo il dibattito sulle contraddizioni legate all’immigrazione, va bene la robotica e il progresso tecnologico, ci mancherebbe la paura del terrorismo jihadista o l’apprensione per il cambiamento climatico: ma se vivi in un mondo in cui in ogni istante la tua vita e quella della tua famiglia possono essere distrutte da una malattia, senza distinzione di età, genere, razza o religione, il problema principale dovrebbe essere quello.

E invece no.

Il mondo va avanti come se tutto fosse normale e il cancro fa la fine del celebre elefante nella stanza, il problema imbarazzante ed evidentissimo che in modo grottesco facciamo finta di non vedere, sperando non tocchi mai a noi. E invece, a intervalli regolari, ci tocca tutti, tutti siamo costretti al ruolo del parente, dell’amante, dell’amico della vittima e per continuare a vivere mettiamo in scena un paradosso: facciamo finta che il cancro non esista anche se in realtà pensiamo solo a quello, per non ammettere di avere paura.

Io, personalmente, ho una paura fottuta. Quelli dell’Isis, in confronto, mi paiono inoffensivi come Gaspare e Orazio della Carica dei 101. Ho talmente paura che non so neppure se ho ancora il coraggio di avere un figlio, per non rischiare di fare la fine di mia nonna che oggi, ad 84 anni, su tre figli ne ha persi due, entrambi per la stessa causa.

In casi come questi si finisce sempre per cercare conforto nella Scienza, attaccandosi a internet nella disperata ricerca di notizie incoraggianti. Il problema è che i numeri, come al solito, dei nostri sentimenti se ne fregano. E allora leggi fredde leggi statistiche, scoprendo che l’attuale spesa per la ricerca ha recentemente superato, nei soli Stati Uniti, i 125 miliardi di dollari annui; ma a fronte di questo oceano di denaro, nel 2016 in America 600 mila persone sono morte di cancro e a 1,7 milioni di persone ne è stato diagnosticato uno.

È vero: tra il 2004 e il 2014 la percentuale di vittime è scesa del 13% (tutti i dati provengono dal National Cancer Institute), ma in larghissima parte si tratta di persone che sono riuscite ad allungare la vita di uno, due anni in più, non certo a togliersi di dosso la data di scadenza che un malato terminale si porta appresso.

La stessa comunità scientifica, nel suo complesso, sul cancro non potrebbe pensarla più diversamente. Molti sostengono che il modo di trattare e perfino di concepire il cancro che la medicina ha messo in pratica fino ad oggi sia inefficace: il problema è che quasi nessuno concorda sul da farsi.

Uno dei più importanti passi avanti degli ultimi decenni, è stata la scoperta che molti tipi di tumori sono innescati da mutazioni genetiche, cosa che ha fatto supporre, a centinaia di ricercatori sparsi per il mondo, che la chiave di volta per sconfiggere il mostro risieda nel DNA.

Purtroppo, a livello pratico, convertire la scoperta in risultati terapeutici concreti si è rivelato molto più difficile del previsto.

La scorsa estate, negli USA, si è parlato molto del dottor Paul Davies dell’Arizona State University, che ribaltando il paradigma dell’ipotesi genetica ha affermato che il cancro sia in realtà un paradosso dell’evoluzione umana. A un certo punto, per una ragione misteriosa, le cellule di un individuo regrediscono da un punto di vista evolutivo, abbandonando il loro status di organismi complessi per tornare allo stato primitivo di organismi monocellulari, funzionando in modo simile alle alghe o ai batteri, esattamente il modo in cui funziona il cancro.

A sostegno di questo approccio definito “atavistico” (atavistic), il fatto che le cellule tumorali mostrino un metabolismo programmato per funzionare in presenza di quantità minime di ossigeno: secondo Davies questo proverebbe che il cancro comparve sulla Terra tra 1 miliardo e 1 miliardo e mezzo di anni fa, quando la quantità di ossigeno nell’atmosfera era estremamente ridotta e la vita esisteva solo in forma monocellulare.

Il cancro, insomma, sarebbe un salto nel Tempo nella vita cellulare di un individuo, dal presente a un passato distante milioni di anni, innescato da cause che Davies immagina legate ad una situazione di stress subita dall’individuo. Il cancro, insomma, come un assurdo e paradossale meccanismo di difesa.

La teoria ha suscitato un intenso dibattito sui media mainstream: ma sul piano pratico non è cambiato nulla. Quelli che pensano a Davies come a un genio rivoluzionario e coloro secondo cui altro non è che uno sciocco impreparato, concordano tutti su un punto: serviranno decenni di studi approfonditi per riuscire a farsi un’idea più precisa.

“Decenni” contro cinque giorni feriali: questa la differenza di passo tra ricerca e malattia. Uno scarto che suona come uno scherzo di pessimo gusto, una battuta di humor nero detta nel più sbagliato dei momenti.

Purtroppo, per oggi e domani e pure dopodomani, non ci sono alternative: o si vive illudendosi che il cancro non esista – ma poi quando arriva si è talmente impreparati che nemmeno si ha la forza di piangere – o si rimane chiusi in casa a guardare il soffitto, terrorizzati al pensiero che il prossimo potrebbe essere tuo figlio, tua madre, il tuo migliore amico. O più semplicemente tu.

È in casi come questi che invidio chi ha almeno la fortuna di credere in Dio.

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